Domanda obbligata: come è stato, esser figlio di due artisti di quella portata?
«Molto strano. Ho avuto un grande colpo di fortuna. Ma devo premettere – sorride Jacopo Fo – che come si può immaginare questa è una domanda che mi sento fare da tutta la vita. Pensi di avere la risposta pronta, ma insieme alla solita risposta preparata, nella mia testa ogni volta riaffiorano ricordi ed emozioni».
Ce ne racconta qualcuno?
«I miei genitori avevano una grande capacità di empatia, di relazione. Io ho amici che in tutta la vita non hanno mai abbracciato il proprio padre. Nella mia famigli l’emotività faceva parte… del lavoro. Gli scherzi, la comunicazione, l’emozione erano continui. Tutto ciò era semplicemente grandioso».
Lei naturalmente questo rappresenta sul palco, e racconta nel libro?
«Io cerco di regalare attraverso lo spettacolo e il libro, il fatto di essre cresciuto nella completa mancanza di aderenza ai codici. Una volta mio padre per chiedere informazioni stradali, non c’erano ancora i navigatori elettronici, esce dalla macchina e gli cascano i pantaloni. Ricordo mia mamma che si scompiscia letteramente, mentre io ero terrorizzato. Pensavo: ma con mio padre non sono al sicuro. E poi… ».
Dica,
«Una gita in montagna – noi avevamo case a Milano e a Cassanego di Cernobbio, e a Sala di Cesenatico -, avevo tre anni e mezzo. Dovevamo pranzare in un ristorante in quota, sulle Aspi. Mi caricano da solo in seggiovia. Ero terrorizzato. Arrivo in cima in crisi di panico, aggrappato come una scimmia. L’addetto mi tira un ceffone. Mio padre alla fine mi portò giù a piedi. Niente ramanzine, mai un ceffone, una punizione. Mi spiegavano le cose. ‘Ti dico perché hai fatto una c….’, mi diceva. Il loro metodo educativo era lasciarmi completamente libero».
Non è pericoloso?
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