MADRE CORAGGIO di Dario Fo
Inviato da Cacao Quotidiano il Dom, 10/30/2005 - 09:40
Il Cacao della domenica
Madre coraggio 2005
di Dario Fo
MONOLOGO SCRITTO PER FRANCA RAME SU CINDY SHEEHAN, MADRE DEL SOLDATO CASEY, MORTO IN IRAQ.
Parte prima
Una frase che mi sono sentita risuonare più volte nel cervello aveva la voce di mio figlio: "Mi voglio iscrivere all'università - diceva - l'unica opportunità che ho è quella di arruolarmi nell'esercito degli Stati Uniti. Sarà l'esercito a pagarmi le tasse per frequentare i corsi, non ho altra soluzione."
Un mese dopo la sua partenza per la zona d'operazione è arrivato un accredito da parte dell'Esercito a nome di Casey Sheehan: erano i denari per pagare la prima rata d'anticipo all'iscrizione. Tre giorni appresso un'altra lettera: "Oggi 4 aprile 2004 suo figlio Casey è stato ucciso durante una sommossa in Iraq".
L'accredito non serve più.
Era come se tutto fosse volato via, la casa, la sua stanza, i suoi abiti civili, i suoi giochi, la bicicletta. Tutto morto.
I suoi amici arrivavano balbettando a chiedere notizie e biascicare cordoglio, la sua ragazza non riusciva a singhiozzare, era bianca come uno straccio. L'ho schiaffeggiata ma non è riuscita a piangere.
Su un giornale locale ho trovato un articolo che elencava i caduti della regione. Ho rintracciato qualche famiglia. Ho parlato con le altre madri. Due di loro continuavano a ripetere la stessa mia domanda: "Perché l'hanno mandato lassù,
mio figlio? Perché è morto in un Paese che io fino l'altro ieri non sapevo nemmeno esistesse?"
Il 4 agosto sono partita da casa, portando con me tutto il necessario per dormire all'addiaccio, come andassi ad un campeggio. Due giorni dopo ero nel Texas, scendevo da un pullman vicino
all'ingresso del ranch di George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti.
Ho aperto la sedia da giardino che avevo portato da casa e mi ci sono seduta, esattamente di fronte alle due grosse corna sorrette da altrettante travi di legno massiccio, che delimitavano l'entrata alla tenuta.
Sopraggiunse di lì a poco una macchina degna davvero di un Presidente, si fermò davanti a me e l'autista chiese se avessi bisogno di qualcosa.
"Vorrei parlare con il signor Presidente, sono la madre del soldato Casey caduto in Iraq."
L'autista non rispose nulla, schiacciò l'acceleratore e se ne andò.
Mi spostai un attimo per evitare la sbroffata di polvere che mi stava arrivando addosso.
Estrassi un album dalla sacca, mi risedetti al mio posto e cominciai a scrivere.
Più tardi il sole al tramonto proiettava due enormi corna d'ombra. Arrivò un poliziotto in moto, feci cenno di fermarsi, si arrestò proprio tra le due corna: "Agente, le dispiace consegnare questa lettera al Presidente?"
"Vedrò se mi riesce! - disse il poliziotto - Ma lei Signora pensa di rimanere qui per molto tempo?".
"No! Solo fino a quando riceverò risposta. Non è proibito vero?"
"No, non credo. Fin quando rimane fuori dal ranch nessuno la dovrebbe importunare, è territorio pubblico. Arrivederci e buona fortuna."
Solita sgommata e via.
Mi sistemai per la notte. Piantai i paletti per la tenda e la issai.
Vennero due altri poliziotti in macchina con tanto di lampeggiante. Mi chiesero i documenti: "Cosa fa qui signora?".
"Aspetto dal Presidente una risposta alla lettera che gli ho fatto avere."
"Non sarebbe più comoda se l'attendesse a casa sua? Ci avrà messo l'indirizzo, no?"
"No. Dietro la busta ho scritto solo: sto qui fuori sotto l'arcone d'ingresso. Attendo risposta."
Viene buio. Fra le due corna del portale si accende un gran faro che proietta fasci di luce gialla tutt'intorno. Per proteggere gli occhi dalla luce che filtrava attraverso la tenda
mi sono avvolta una sciarpa intorno al capo.
Il mattino sono stata svegliata da un canto di bambini, ho liberato gli occhi dalla sciarpa e ho fatto capolino fuori dalla tenda.
Stava transitando uno stuolo di scout, maschi e femmine. Andavano dal Presidente. Un giornalista, che li seguiva, si fermò a chiedere con molto garbo che facessi lì. Gli raccontai della lettera.
"Scusi se sono sincero" - commentò - ma penso che questa sua provocazione non avrà molto successo."
"Non è una provocazione. George Bush è il nostro Presidente. E credo di avere il diritto di porgli una domanda su mio figlio. E' lui che ha dichiarato guerra all'Iraq e ha inviato mio figlio Casey laggiù a combattere."
Il giornalista mi guardò con un'espressione quasi commossa, e commentò: "Lei mi ricorda un antico santone tibetano che diceva: 'Il candore unito alla fede sposta le montagne. Ma spostare gli uomini prevenuti, anche di un solo passo, è molto più difficile.'"
Due ragazzine, che sopraggiungevano, lo afferrarono per la giacca per tirarlo via di lì. Il giornalista raccolse un mazzolino di fiori caduti a terra e me lo posò sulla coperta.
"Fra poco incontreremo il Presidente - disse - tenterò di accennargli del suo caso", e mi lasciò per inseguire il gruppo dei boy-scout.
Nella giornata continuavano ad entrare ed uscire dal ranch macchine, moto e gruppi di gente a piedi, quasi tutti visitatori, che raggiungevano gli autobus fermi ad attenderli lungo la strada principale.
Pochi facevano attenzione a me. Quasi nessuno si fermava a pormi domande.
Avevo estratto il computer portatile, me lo ero posto sulle ginocchia per comunicare on-line a tutti i siti che conoscevo quello che stavo combinando.
Il mio appello stava rimbalzando in modo inimmaginabile, grazie ai blogger, fino a raggiungere un'enorme quantità di siti.
Il giorno appresso ho ricevuto la visita di alcuni ragazzi che venivano da Huston. Mi avevano portato anche da bere ed altre provviste. Mi fecero leggere dei giornali che, seppure in tono sciatto e distratto, davano notizie del mio sit-in. Stettero con me tutta la giornata.
Non smettevo mai di inviare e-mail. Giorno dopo giorno, le visite continuavano a crescere, arrivavano perfino delegazioni di cittadini che venivano a darmi tutta la loro solidarietà. Molte
erano le donne, molte erano le madri di soldati al fronte, qualcuna come me aveva perso il figlio.
Una donna emigrata dal Messico, ancora ragazzina, venne a sedere vicina a me: "Anch'io sono una madre disperata come te. Mio figlio si è arruolato nell'esercito americano ma non era cittadino degli Stati Uniti, era solo un emigrato ispanico. Al momento dell'ingaggio gli è stato assicurato che se avesse trascorso tutto il periodo dell'azione militare comportandosi degnamente sarebbe stato riconosciuto cittadino degli Usa a tutti gli effetti ma non ha potuto godere di questo privilegio: è stato ucciso in combattimento. L'elicottero, sul quale era mitragliere, è stato abbattuto dopo un solo mese di guerra, sopra Baghdad. Ma io sono stata fortunata... - ha aggiunto con evidente ironia - In compenso, giacché il mio ragazzo con il suo sacrificio, seppur da morto, ha acquisito il diritto di cittadinanza di questo Paese, anche io come madre ho potuto godere della stessa opportunità. Oggi sono riconosciuta cittadina americana e perfino gli altri miei due figli godono di tutti i diritti di chi nasce in questa terra da padre e madre yankee.
E' davvero una fortuna che l'abbiano ammazzato, questo mio primo figlio."
Trascorre una settimana. Anche giornali importanti, come il Washington Post e il New York Times, si accorgono della mia presenza sotto le due enormi corna dell'ingresso del ranch. Arrivano inviati per le interviste e quasi a ruota anche troupe televisive come la CNN e la CBS. Mi sento molto imbarazzata: "Bisogna che resti calma, staccata. Non devo farmi trascinare nella logica del personaggio che mi vorrebbero far recitare: una specie di Giovanna D'Arco incrociata con la madre di Batman".
Mi rendo conto che quando mi pongono domande ovvie e banali le mie risposte appaiono vuote e artefatte. Ma appena incappo in un giornalista preparato e spiritoso, ecco che sorprendentemente anche le mie risposte suonano intelligenti e addirittura originali.
Ogni giorno escono servizi televisivi a valanghe. Mi hanno già trovato un paio di nomi. C'è una specie di gara ad affibbiarmi nomi epici e d'effetto, come "madre pace" (peace mome), madre coraggio, l'eroica donna della California ecc. Il New York Times mi dedica una pagina intiera: "Cindy Sheehan ha 48 anni, è californiana, bianca, cattolica e suo figlio Casey, arruolatosi nell'esercito statunitense per pagarsi le tasse universitarie, è morto in Iraq nell'aprile del 2004. La signora Sheehan insomma è una donna comune e la sua storia, semplice quanto tragica, non è molto diversa da quella di oltre 1.800 madri statunitensi che hanno perso i loro figli per una 'nobile causa', come si ostina a dire il nostro Presidente. Eppure, da quando il 6 agosto è arrivata a Crawford, in Texas, e si è piazzata davanti al ranch dove Bush passa le sue vacanze estive, Cindy è diventata uno dei personaggi più noti degli Stati Uniti. Quasi un terzo della popolazione americana, un centinaio di milioni, la conosce e parla di lei.
Di certo la fama di cui improvvisamente gode questa donna dipende dall'apparire sola e indifesa. Non alza la voce, non issa bandiere, è sommessa e spaventata, intimidita essa per prima del clamore che va suscitando".
E' trascorso più di un mese.
Gli amici che mi vengono a far visita crescono ogni giorno di numero. Qualche gruppo ha deciso di stabilirsi presso il mio spazio che ormai si chiama "terra di Casey". Due sostenitori pacifisti, che hanno voluto restare anonimi, hanno acquistato a poche centinaia di metri dall'ingresso del ranch una piccola abitazione che hanno battezzato "La casa della Pace". Ora abito lì.
Dal Presidente non arriva ancora nessuna risposta. Perciò mi decido ad inviargli un'altra lettera. Via e-mail mando lo scritto a tutti i siti con cui sono in rapporto, con la preghiera di divulgarlo il più possibile. Ecco la lettera:
Caro Presidente Bush,
ho atteso cinque settimane una Sua risposta. Forse i miei primi messaggi sono andati perduti nel bailamme di corrispondenza da cui si ritroverà sicuramente ogni giorno sommerso. Perciò mi decido ad inviarLe un'altra missiva, che verrà riprodotta e distribuita via e-mail e inoltre pubblicata dai quotidiani, cosicché stavolta, spero, non andrà perduta.
Scrivo a Lei perché mi aiuti a sciogliere un doloroso vuoto di conoscenza, che mi assilla da quando ho ricevuto la terribile notizia che mio figlio è stato ucciso in Iraq.
La domanda è semplice: "Perché? A che scopo Lei, e con Lei la il segretario di stato Condoleezza Rice, andate ripetendo, quasi ad ogni vostro intervento, che i giovani americani che hanno perso la vita in questo conflitto in Iraq si sono immolati per una 'nobile causa'? Spiegatemi cosa significa 'nobile causa'? Dove sta la nobiltà di una simile morte?
Ci avete assicurato che questa guerra era un dovere sacrosanto per salvare il mondo. Voi e i vostri collaboratori politici e militari vi siete detti certi che l'Iraq possedesse armi di distruzione di massa. Esistono le prove e avete dichiarato alla stampa e alla televisione di essere in possesso di foto satellitari e immagini scattate dagli aerei spia: fabbriche d'ordigni fotografate a più riprese.
Ci avete dato per certo che entro un anno Saddam Hussein avrebbe posseduto bombe atomiche con le quali sarebbe stato in grado di colpire e distruggere l'America e il mondo tutto.
Ma le Nazioni Unite avevano più di un dubbio sull'autenticità delle vostre accuse, perciò hanno inviato propri osservatori che non hanno scoperto nulla.
Ma che risposta avete dato voi alla dichiarazione negativa dell'Onu?
Ci avete assicurato che le Nazioni Unite non sarebbero riuscite a rintracciare gli ordigni, per la semplice ragione che l'Intelligence di Saddam avrebbe anzitempo sistemato le micidiali armi segrete in sotterranei inaccessibili e ben nascosti.
E di nuovo avete rilanciato: "Possediamo foto degli avvenuti trasbordi".
Ma quando, dopo aver scagliato l'attacco e aver sgominato la resistenza nemica, siete giunti ad occupare tutto il territorio iracheno e finalmente siete stati in grado di indagare in ogni direzione e luogo, non sono emerse né armi di distruzione di massa né frammenti di esse.
I nostri generali hanno dovuto ammettere che i terribili ordigni, che avevano dato per certi, non erano mai esistiti.
E allora domando: "Come si può distruggere qualcosa che non è mai esistito?". E ancora una volta ripeto: "Perché avete mandato mio figlio a morire lassù?".
Dov'è la nobile causa per la quale mio figlio si sarebbe immolato e con lui 1.800 altri cittadini americani?
So dai giornali e dai servizi televisivi che la mia insistente presenza davanti al suo ranch Le ha causato qualche fastidio. Un corrispondente assicura che Lei, signor Presidente, e il Suo staff vi sareste mossi per contrastare questa mia presenza e cancellare le mie "petulanti" domande. A questo scopo avete cercato di procurarvi, fra le tanti madri alle quali è stato ucciso un figlio in Iraq, qualcuna disposta a contrapporsi alla mia protesta.
Un quotidiano in particolare, forse maligno, ha scritto che l'operazione non è stata semplice. Delle 1.800 madri interpellate, pare che nessuna fosse disposta a darLe una mano. Poi finalmente se n'è trovata una che ha dichiarato: "Sono orgogliosa di aver dato mio figlio alla patria."
Ho trovato quella frase molto infelice e poco credibile. Ma si sa, io mi trovo a essere prevenuta...
Quella voce spunta stridente e falsa dentro una guerra illegittima, illegale e basata su un mucchio di bugie su cui non si respira l'aria della verità ma solo il fumo dei pozzi di petrolio che si incendiano sullo sfondo. Io sospetto sempre di più che quell'immagine ci proietti la vera ragione di questa guerra: quel petrolio è nostro, fin dal giorno in cui abbiamo deciso di prendercelo.
Fine prima parte.
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