7 DICEMBRE 1976. La vera storia dell’assalto alla Scala di Milano.
Inviato da Jacopo Fo il Dom, 12/07/2008 - 23:08Ti racconto questa storia perché fu uno dei momenti cruciali dello scontro tra la corrente violenta e quella pacifica all’interno del movimento.
La lotta armata negli anni successivi diede vari colpi di coda. Come il rapimento Moro.
Ma si trattava di azioni disperate degli ultimi irriducibili. Ci fu un momento tra il 1974 e il 1976
che in italia erano decine di migliaia quelli esasperati dalla violenza fascista e poliziesca che erano pronti a passare alle vie di fatto.
Io e Sergio eravamo tra coloro che già avevano abbandonato l’ala ultramilitarista intorno all’inzio del 1975. Nel 1976 militavamo nei movimenti giovanili e avevamo occupato una casa vuota trasfrormandola in una via di mezzo tra una comune hippy e un centro culturale studentesco.
Erano decine le case occupate e trasformate in Centri Giovanili. Una galassia che ondeggiava tra la controcultura e l’incazzatura frontale, ancora affascinata dal mito del ribelle senza paura che si batte per distruggere lo stato borghese, armi alla mano. Racconto questa storia perché sento che in questo momento di crisi ci sono compagni che stanno prendendo in seria considerazione l’opzione violenta. Io non credo che si possa ottenere qualche cosa su quella via. Oltre al sangue e al dolore.
Correva l’anno 1976, ottobre, durante un convegno nazionale dei circoli giovanili un imbecille lanciò l’idea di ripetere l’impresa delle uova lanciate nel ’68 all’inaugurazione della stagione lirica alla Scala (quell’azione era stata capitanata da Capanna). La dirigenza dei collettivi resta affascinata dal fatto che questa idea fosse venuta a un compagno “di base” e questo, sostanzialmente, è l’unico motivo teorico, tattico e strategico, che porta i collettivi giovanili a decidere di assaltare la Scala.
Durante tutto il mese di novembre si discute ancora su come fare. Siccome la polizia aveva vietato ogni assembramento di più di due persone, era chiaro che ci avrebbero maciullati, non erano più i tempi i in cui potevi fare lo spiritoso. Noi del collettivo proponiamo in un primo momento di minacciare di bruciare la città fino all’ultimo uomo e poi darsi a un picnic in campagna. L’idea viene bocciata. Proponiamo allora di minacciare la distruzione dell’intero triangolo industriale Milano-Torino-Venezia e poi fare una festa occupando un supermercato in periferia. L’idea viene bocciata.
Quindi proponiamo tre cortei microscopici sulla seconda circonvallazione, mordi e fuggi e darsela a gambe prima che ci scappasse il morto. Finalmente ci danno retta.
Riusciamo così a rintuzzare l’idea estrema che era quella di marciare dritti sulla Scala e raderla al suolo.
Per la prima volta in vita nostra ci troviamo a essere noi, visto che nessun altro ne aveva voglia, a decidere la tattica con la quale sbaragliare la Ps e sconvolgere il centro-nord del paese.
Mai piano strategico venne studiato più minutamente.
Decidiamo:
1 • Arruolare la crema degli uomini scelti. Non volevamo morti tra i civili. 450 eroi sarebbero bastati.
2 • Tre cortei sarebbero partiti da tre punti diversi a una distanza di 3 km dalla Scala così da trovarsi al di fuori del quadrilatero che la polizia avrebbe schierato.
3 • Comunicare ai giornali con una conferenza stampa scenografica che avremmo attaccato frontalmente il centro e raso al suolo la Scala.
4 • Fare esattamente il contrario, apparire e scomparire, bloccare gli incroci, scappare per le viuzze. Barricate e sabotaggio dei semafori, creare ingorghi.
5 • Usare fiumi di fuoco per bloccare la strada.
6 • Armamento: molotov, bastoni corti e scarpe da tennis.
Il nostro unico scopo era che non andasse molto male. Non mi ricordo di aver mai aspettato un corteo con tanto terrore. I giornali ci dipingevano come mostri. La polizia aveva mano libera per farci a pezzi.
A noi toccò la zoa sud-ovest. Stabilito questo iniziamo a cercare 150 kamikaze per fare il lavoro sporco. Li ingaggiamo nei vari collettivi che occupano case. Dieci da una parte, dieci da un’altra. Piccole bande molto affidabili. Il giorno convenuto all’ora convenuta sto male. Ci troviamo in 70 nel nostro circolo giovanile. Prendiamo due autobus, in via Pierlombardo troviamo gli altri 80. Dovevamo incominciare bloccando piazza Cinque Giornate. Mandiamo avanti un gruppo a vedere che aria tira. Quando tornano hanno gli occhi fuori dalle orbite. In piazza Cinque Giornate c’è un corteo con megafoni, striscioni e bandiere rosse. Per un attimo pensiamo a qualcun altro che non c’entra niente, tipo un presidio antifascista del Movimento Studentesco (Capanna) o un’agitazione di quartiere dell’Unione dei comunisti marxisti leninisti. Invece sono alcuni collettivi giovanili della periferia (sconosciuti) calati in città in cerca di sangue, metà dell’ex servizio d’ordine di Lotta continua e uno squadrone di cattivissimi di alcuni comitati di quartiere (vere belve).
Gli chiediamo se gli aveva dato di volta il cervello o sono semplicemente diventati scemi ad arrivare così in tanti e con gli striscioni. Ci rispondono che sono loro i collettivi giovanili, noi replichiamo che siamo noi i collettivi giovanili, loro ci dicono che ci rompono la testa. A quel punto capiamo che ci hanno fregato il corteo. Era il primo che dirigevamo nella nostra vita e ce lo avevano fregato. Inizio a stare veramente male. Colica renale.
Immediatamente i nostri 150 perdono ogni compattezza. Ci ritroviamo ridotti a una ventina di desesperados. Decidiamo, con spirito patriottico, di sacrificarci per salvare il salvabile. Prendiamo la coda del corteo e cerchiamo di seguire la tattica decisa bloccando la strada con macchine messe di traverso. Arrivati in Porta Ticinese, ci rendiamo conto che il nostro lavoro aveva fermato solo due auto. La campagna dei giornali aveva terrorizzato tutti: la città è deserta. Difficile provocare ingorghi in una città deserta.
La nostra strategia è saltata. Niente ingorghi. E per giunta la testa del corteo si rifiuta di svicolare per le viuzze. Vogliono percorrere le vie principali che fa più figo.
Passa così più di un’ora. Sto sempre più male. Uno sforzo disumano, cammino piegato in due con una sacca con dentro due bocce appesa alla spalla, ho in mano la spranga.
A quel punto chiediamo a quelli in testa di sciogliersi e andare a casa come previsto. Avevamo fatto già molto e si poteva finirla lì. Rischiare oltre era stupido. Facciamo un chilometro verso piazzale Baracca, ci fermiamo di nuovo a discutere, si tiene una riunione, in mezzo alla strada, tra i responsabili delle varie squadre di servizio d’ordine, e finalmentetutti sono d’accordo per sciogliere il corteo. Stiamo andando a comunicare la decisione ai nostri rispettivi gruppi quando alcuni dementi di Quarto Oggiaro, tutti al di sotto dei 16 anni, decidono di partire verso il centro della città e la Scala. Altri cretini li seguono entusiasti.…
A quel punto gli andiamo tutti dietro perché non si poteva lasciare che si suicidassero così giovani. Torniamo così in corso Magenta, riusciamo a bloccarli. Finalmente, riusciamo a raccogliere un gruppo di sette o otto capisquadra e insieme cerchiamo di convincere tutti a tornare verso la periferia, terminare quella fesseria e scioglierci. Ci si scioglie… non ci si scioglie. Basta, sciogliamoci!
Ormai sono in coma.
Sto per tornare al mio gruppo per dare la notizia che finalmente ci sciacquiamo dalle palle e proprio in quel momento vedo uno strano riflesso di luce intermittente in fondo alla strada deserta. Ci metto 5 secondi per capire che la luce è il riflesso degli scudi di plastica trasparente e delle visiere dei caschi di uno squadrone di carabinieri.
Mi aspetto che i compagni in testa buttino le molotov per bloccare la carica dei carabinieri. Non succede niente. Niente. Continuo a correre verso la coda del corteo dove sono schierati i miei soci per spostarci insieme verso la prima linea e arrivato lì mi trovo invece davanti un plotone di cappotti grigi della Ps che sciamano giù da alcuni camion e ci vengono addosso.
Ci hanno chiuso in trappola. Corso Magenta non ha vie laterali. Una classica imboscata.
Le forze dell’ordine non si stanno comportando come eravamo abituati: niente lacrimogeni, niente trombe, niente sgasate di gipponi. Silenzio. Ci stanno arrivando addosso in silenzio. Si sentono solo gli scarponi che battono sul terreno: una cosa da panico.
Capisco immediatamente 4 cose:
1 • Vogliono caricarci di botte.
2 • Nessuno sta facendo uno sbarramento con le molotov.
3 • La battaglia è persa.
4 • Se non esco di qui mi massacrano.
Il terrore mi risveglia un’energia inaspettata.
Come per miracolo guarisco dalla colica renale, esco dal coma, resuscito, tiro fuori una molotov chimica dalla borsa a tracolla e mi lancio verso l’incrocio che la polizia sta chiudendo.
Immagine numero 23, da sinistra a destra: l’angolo della casa all’incrocio tra corso Magenta e via Vincenzo Monti. La gente si sta già accalcando, nella fuga, tra l’angolo della casa e il furgone. Decido che è meglio soli che in mezzo al panico. Un poliziotto sta venendo verso di me col manganello alzato. Accelero, tiro la bottiglia e passo, quello dietro di me viene colpito da una manganellata. Ma questo lo so il giorno dopo. Non mi giro, faccio 200 metri di corsa, ho letteralmente la bava alla bocca che nel giro di dieci secondi secca gli angoli delle labbra. Un fenomeno chimico incredibile. Probabilmente la paura deve avermi provocato una tale scarica di adrenalina che la mia temperatura è salita a 2000 gradi fahrenheit.
Quando mi volto l’incrocio è un inferno di fuoco. Alcuni compagni, accalcandosi tra la casa e il pulmino sono caduti con le bottiglie in mano e hanno preso fuoco. Urla disumane, gente che corre in fiamme. Non ho mai visto una cosa del genere.
Una situazione disastrosa. Ricomponiamo un cordone e ci schieriamo per sostenere una nuova carica della polizia. Ma non succede niente. Poi ci vengono incontro due ustionati. Uno è grave, non ha più i calzoni ed è in stato di shock.
C’è un compagno che abita lì vicino. Andiamo a casa sua. Lungo la strada troviamo un altro ragazzo ferito. Arriviamo alla casa, suoniamo il citofono: “Apriteci abbiamo dei feriti.”
Sergio ha una spalla contusa per una manganellata ma si intende di ustioni. Una volta si è scottato friggendo le patatine. Ci dice cosa si deve fare. Mandiamo una ragazza in farmacia. Facciamo bollire un paio di forbici e inizio a tagliare via pezzi di carne bruciata attaccata insieme a pezzi di vestiti carbonizzati. Il più grave ha le gambe e il sedere rovinati. Bolle di 5 cm di altezza. Arrivano le garze medicate con una pomata, lo copriamo con quelle e lo fasciamo. Poi passiamo agli altri due. Arriva un nuovo ustionato, non è grave. Dopo aver finito andiamo alla nostra casa occupata, anche lì ci sono feriti. Finiamo di rattoppare gente alle cinque di mattina.
Il bilancio del giorno dopo è spaventoso. Una ragazza ustionata gravemente resterà in coma a lungo. La polizia ha ferito decine di ragazzi inseguendo la gente nei palazzi e perfino sui tetti delle case. Uno è caduto sfondando un lucernario e si è spaccato le gambe. Il disastro segna l’inizio della fine dei circoli giovanili.
(Da 68, c'era una volta la rivoluzione di Sergio Parini e Jacopo Fo, Feltrinelli 1998. Reperibile solo in biblioteca.)
Durante un successivo sopraluogo accurato notai che durante quella sera non restammo per nulla imbottigliati in corso Magenta per il semplice fatto che c’era una via laterale dalla quale tutti avremmo potuto fuggire ma nel panico non la vedemmo.
4 mesi dopo, a Bologna, a seguito dei terribili scontri che costarono la vita al compagno Lo Russo ci fu un enorme corteo. Si temevano nuovi scontri ma eravamo talmente tanti a non volerli che l’ala militarista del movimento capì che non c’era storia. Durante quel corteo nacquero gli Indiani Metropolitani. Per la prima volta, invece di fare a botte con la polizia iniziammo a scherzare con loro e a gridare slogan comici stando seduti per terra invece che schierati con la faccia cattiva.
Qualche settimana dopo, a Milano, davanti alla Scala ci trovammo di nuovo a fronteggiare la forza pubblica in qualche centinaio.
E fu lì che ci mettemmo a giocare a bandiera. Uno di noi avanzò verso la polizia e si mise in mezzo tra noi e loro con un fazzoletto in mano.
Poi chiamò: “Sette!”
Uno di noi parte di corsa, prende il fazzoletto e torna dietro la nostra linea. E tutti: “Uno a zero! Uno a zero!”
Il ragazzo con il fazzoletto chiama “Diciannove!”
E si ripete la scena. Quando siamo a 4 a zero il commissario s’incazza e inzia ad avanzare verso il ragazzo con il fazzoletto che prontamente urla:”Dodici.” Un ragazzo parte anche dalle nostre fila muovendosi alla velocità del commissario che cammina deciso ma senza correre per non darci la soddisfazione. Il ragazzo prende il fazzoletto un attimo prima che il commissario agguanti il compagno che chiamava i numeri: Poi scappano tutti e due insieme. Allora il commissario s’incazza perché ha perso e ordina la carica. Scappiamo in Galleria Duomo. Loro si fermano, noi ci fermiamo. Ricomponiamo il cordone. Un compagno tira fuori un fazzoletto e grida: “Trentadue!!!”
Avevamo capito che il mondo nuovo lo volevamo veramente e che per averlo si doveva iniziare a costruirlo con le nostre mani pezzo per pezzo.
E’ una balla che il potere politico nasce dalla canna del fucile. Mao si è sbagliato. Un popolo non diventa libero se l’armata rossa vince ma se cambia il suo modo di produrre e pensare. La Russia, la Cina, Cuba e il Vietnam ce lo ha dimostrato. Quando i rivoluzionari vincono la rivoluzione diventano tali e quali i potenti che hanno cacciato.
Un popolo di servi troverà sempre il suo dittatore. La rivoluzione francese ha perso. La borghesia ha vinto in Inghilterra quando le macchine a vapore hanno rivoluzionato l’economia.
La vera rivoluzione, come diceva Marx, nasce dal modo di produrre e di vivere. Picchiarsi con la polizia voleva dire perdere tempo prezioso. Era quello che volevano i potenti. Fregarci con la faida infinita del “Lotta-repressione-lotta”.
La nostra forza non erano le bottiglie molotov ma il nostro modo di vivere, di lvorare e di consumare.
Voti ogni volta che fai la spesa.
Non c’era tempo per gli scontri di piazza. Avevamo altro da fare. Subito.
Ora stiamo vivendo una grande rivoluzione tecnologica, più radicale di quella industriale.
E’ la rivoluzione della comunicazione, di internet, delle ecotecnologie e della democrazia energetica.
I tempi presto saranno maturi per un grande cambiamento anche se ora ci sentiamo annegare nella merda italiana. Tocca continuare a scavare e a sperare. Nessuno vive in eterno, neanche Berlusconi.
Se vuoi saperne di più su questo discorso vedi:
10 cose che il capitalismo non ti ha detto
Pessimismo cosmico e gnocca globale.
Trasformarsi da consumatori ad appaltatori della produzione di merci etiche.
Indice degli articoli politici principali su questo blog