Libri: SANTA MAFIA, di Petra Reski
Inviato da Cacao Quotidiano il Sab, 12/05/2009 - 08:00
Carissimi,
questa settimana Vi presentiamo un libro molto interessante edito da Nuovi Mondi Media. Si tratta di “Santa Mafia”, di Petra Reski
Duisburg, agosto 2007. Davanti al ristorante Da Bruno vengono ritrovati i cadaveri di sei uomini, tutti calabresi, crivellati da 70 proiettili. Sara' chiamata la Strage di Ferragosto: il primo segno evidente della penetrazione delle mafie italiane nel mondo, della lenta ma inarrestabile colonizzazione portata avanti dai “cafoni” in Francia, Spagna e Germania. Ed e' proprio qui, nel cuore produttivo d’Europa, che la mafia ha da tempo indirizzato i propri traffici, non solo per farli fruttare ma soprattutto per “ripulirli”: alberghi, pizzerie, ristoranti di lusso ma anche conti correnti e finanziarie.
Nell’edizione originale il libro e' uscito censurato per volonta' dell’autorita' giudiziaria tedesca, intervenuta su richiesta di alcuni personaggi i cui nomi sono ben noti perche' figurano nelle informative di polizia (sia italiane che tedesche), nei documenti giudiziari, in numerosi resoconti giornalistici. Tuttavia, di loro non si puo' parlare in un libro; la gente deve continuare a ignorare il problema. L’edizione italiana poteva scegliere di eliminare semplicemente queste parti del testo; invece ha deciso di riportare le medesime righe nere sulle parole che sono costate a Petra Reski intimidazioni e minacce. Perche' il lettore abbia una chiara immagine del bavaglio con cui il potere cerca costantemente di ridurre al silenzio il giornalismo piu' coraggioso.
Petra Reski in Germania e' stata eletta Miglior Giornalista del 2008 nella categoria “reporter” proprio a seguito della pubblicazione di questo libro. In Italia, per il suo impegno “al servizio dei grandi valori del giornalismo”, ha ricevuto a Nocera Inferiore il Premio Civitas 2009 da parte dell’associazione ANDE, che premia donne distintesi per il loro impegno nella lotta alla mafia, e l’Amalfi Coast Media Award, il premio internazionale del giornalismo.
Forse anche lei verrebbe strozzata volentieri dal nostro Presidente del Consiglio…
Potete acquistare questo libro direttamente sul sito di Nuovi Mondi.
Vi anticipiamo uno straglio dove l’autrice racconta del suo incontro con Marcello Fava. Buona lettura!
Ricordo ancora ogni sua frase. Per poter parlare con lui avevo dovuto presentare un’istanza al Ministero degli Interni, avevo dovuto formulare le mie motivazioni e garantire che non gli avrei fatto nessuna domanda sui processi in corso. Per incontrarlo ci voleva l’autorizzazione non solo del sottosegretario agli Interni, ma anche di ogni singolo procuratore nei processi per mafia in cui Marcello Fava era coinvolto come imputato o testimone. I primi tempi, per informarmi sullo stato delle cose, avevo chiamato ogni settimana il Servizio Centrale di Protezione, un’articolazione del Ministero degli Interni responsabile per i pentiti di mafia, il cui nome fa pensare a un servizio segreto. Ma presto mi avevano fatto capire che le mie richieste di notizie non avrebbero accelerato la faccenda. Don’t call us, we call you. Per sei mesi non avevo piu' sentito nulla.
Avevo ormai perso le speranze, quando un pomeriggio ricevetti una telefonata da Roma. Servizio centrale, disse una voce. La mia richiesta era stata accolta. Dovevo farmi trovare in un bar di Roma che per ironia della sorte si chiamava Lo zio d’America.
Pochi giorni dopo un taxi mi lascio' a pochi metri dal bar. Il locale sembrava una di quelle labirintiche stazioni di servizio lungo le autostrade italiane, dove entri per prendere un espresso ed esci con cinque CD, un salame d’asino sardo e un pezzo di parmigiano. Dietro un lungo, interminabile bancone vidi alcuni baristi con una bustina di carta sui capelli impomatati. Non appena feci per ordinare un espresso mi squillo' il telefono. Cercai a tastoni dentro la borsa, dal cui fondo continuava a provenire lo squillo, finche' un uomo in piedi accanto a me disse: sono io che l’ho chiamata. Mi segua, prego.
Non avevo capito il suo nome. Gli andai dietro tenendomi a una certa distanza. Per un millesimo di secondo mi chiesi cosa sarebbe accaduto se l’uomo che stavo seguendo non fosse stato chi immaginavo. Lo seguii attraverso marciapiedi costellati di buche, passando davanti a caseggiati degli anni Sessanta e siepi di bosso che puzzavano di escrementi di gatto. La periferia di Roma e' cosi' anonima che facevo fatica a tenere a mente il tragitto. Alla fine si fermo' davanti all’ingresso di un palazzo vicino al quale due uomini stavano in attesa con quell’aria fin troppo qualunque che e' tipica dei poliziotti. L’androne ricordava una casa popolare, con la vernice grigio-gialla che si scrostava dalle pareti.
Marcello Fava, il mafioso, mi aspettava al terzo piano. In un appartamento affittato sotto falso nome dal Ministero degli Interni per i “collaboratori di giustizia”, come vengono chiamati i pentiti di mafia nel gergo politicamente corretto e alquanto eufemistico dei giuristi. Da quando Marcello Fava collaborava con la procura, doveva essere protetto dalla vendetta di Cosa Nostra.
Insieme alla moglie e ai due figli aveva dovuto lasciare la Sicilia e viveva da qualche parte in Italia sotto falso nome e sotto la protezione della polizia. Sebbene l’appartamento fosse disabitato, era pieno di tracce di una vita sconosciuta: a una parete erano appesi un idillio pastorale e uno specchio veneziano ormai quasi opaco, in un angolo era sistemato un logoro divano color senape, accanto c’erano una sedia di vimini sfilacciata e una vecchia cucina a gas. I fornelli erano usurati e sul tavolo da pranzo era stesa una vecchia tovaglia cerata con tracce di tagli. Pareva che gli inquilini si fossero assentati solo per un po’, da un momento all’altro avrebbero potuto aprire la porta e fissare spaventati quegli estranei nel loro appartamento, una donna e sette uomini.
Le tapparelle erano abbassate e i poliziotti presero posizione: una guardia del corpo camminava avanti e indietro sul balcone controllando la strada, due agenti stavano di sotto, di fronte all’ingresso del palazzo, un altro si era appostato nell’androne, uno scrutava il corridoio dallo spioncino, un altro leggeva l’ultimo romanzo di Grisham. Tutti masticavano chewingum e portavano jeans bucati, un gilet safari e un orecchino. Fava sembrava invece un impiegato del Banco di Sicilia, indossava un completo blu notte con una cravatta celeste, aveva un viso roseo e punteggiato da qualche lentiggine, i capelli biondo scuro erano accuratamente divisi da una scriminatura, le sopracciglia mandavano riflessi biondo rossicci. Si passava nervosamente le mani sulle maniche, sui pantaloni, come se vivesse nel timore che gli si sciupasse il vestito. Si era portato una piccola ventiquattrore che teneva adagiata sulle ginocchia e da cui inizialmente non sembrava intenzionato a separarsi. Come uno studente che frequenta una lezione per la prima volta.
Tranquillo, disse quando accesi il registratore. Era, dichiaro', totalmente rilassato. In bocca a un mafioso con accento siciliano, quella parola suona come se fosse pronunciata da un aguzzino per calmare la sua vittima. Tranquillo. Sedevamo al tavolo di cucina sotto la luce artificiale e Fava raccontava la sua vita. Una vita che era iniziata davvero solo quando era stato prescelto.