Dall'introduzione, a cura di Francesco Gesualdi
Da tempo pensavamo di dedicarci a una Guida al vestire critico. Ci sembrava un atto dovuto verso tutte quelle persone che ci confidavano di non volersi più rendere complici dello sfruttamento che si cela dietro alle nostre scarpe o ai nostri jeans, ma non conoscevano le alternative possibili.
Sapevamo che era urgente dedicarci a questo lavoro, ma per lungo tempo lo abbiamo rimandato perché ci metteva paura. Ci spaventava la vastità del settore, la complessità produttiva, la difficoltà di raccogliere informazioni da un capo all'altro del mondo. In una parola ci spaventava l'idea di ammazzarci di fatica senza poter dare, alla fine, le risposte tanto attese. Poi abbiamo deciso di provarci, dicendoci che poco è meglio di niente. Così ci siamo imbarcati nell'avventura.
Nel corso dell'indagine, molti timori si sono confermati. Abbiamo sperimentato quanto sia difficile ricostruire la filiera produttiva delle singole imprese, perché manca una legge sulla trasparenza e le imprese si guardano bene dal fornire informazioni. Basti dire che su 61 questionari inviati alle aziende, ne sono tornati indietro solo 5. A volte abbiamo individuato dove si trovano gli stabilimenti esteri o in quali paesi è appaltata la produzione, ma non siamo stati capaci di raccogliere notizie sulle condizioni di lavoro. Alla fine, le imprese su cui abbiamo potuto raccogliere il maggior numero di informazioni sono le grandi multinazionali, perché su di loro vigilano molti gruppi.
Abbiamo anche constatato quanto sia difficile applicare il consumo critico nell'ambito del vestiario, perché le imprese seguono tutte la stessa strategia produttiva. Da quando siamo entrati nell'epoca della globalizzazione, il loro imperativo è diventato il contenimento dei costi ed è cominciato un fuggi fuggi verso il Nord Africa, l'Europa dell'est, l'Estremo Oriente, in cerca di aziende terziste disposte a produrre per prezzi stracciati. In conclusione il mercato è inondato da una montagna di indumenti tutti diversi per colore, stile, marca, qualità, ma pressoché tutti uguali per le condizioni di lavoro ingiuste, umilianti, oppressive.
Neanche il fronte dell'alternativa è molto attrezzato. Le esperienze del commercio equo sono ancora parziali o in via di perfezionamento, mentre quelle sorte per dimostrare che è possibile produrre nel rispetto dei diritti dei lavoratori sono ai primi vagiti.
Di fronte a tante difficoltà, ci siamo posti obiettivi più modesti: fare conoscere la complessità del settore, divulgare le informazioni disponibili sulle imprese più in vista e fornire ogni possibile traccia per poter orientare i nostri acquisti verso prodotti ottenuti nel rispetto dei diritti, dell'equità, della sostenibilità.
La ricerca è durata oltre un anno ed è stata possibile grazie alla collaborazione di molte persone.
La Guida al vestire critico si colloca anche all'interno di una campagna mondiale per il rispetto dei lavoratori dell'industria tessile.
La campagna, Clean Clothes Campaign, ha recentemente presentato un'indagine condotta tra il 2003
e il 2005 in Bulgaria, Macedonia, Moldavia, Polonia, Romania, Serbia e Turchia.Sono state intervistate 256 lavoratrici di 55 fabbriche o laboratori a domicilio.
Salari insufficienti o al di sotto dei minimi di legge, 15 ore di lavoro al giorno per 6 o 7
giorni alla settimana, precarietà, assenza di tutele sanitarie e antinfortunistiche, molestie sessuali e
maltrattamenti, discriminazioni e attività antisindacali. La Turchia è il paese dove sono stati riscontrati
i peggiori abusi, fra cui l'impiego sistematico di lavoro minorile. Dopo la Cina, la Turchia occupa il
secondo posto tra i paesi fornitori della UE.