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Il capitalismo filantropico... per carita'!

Il capitalismo filantropico... per carita'!
di Simone Canova

Ha destato molto scalpore la notizia di qualche settimana fa secondo cui Warren Buffett, capo del colosso finanziario Berkshire Hathaway e secondo uomo piu' ricco del mondo dopo Bill Gates, ha deciso di destinare in beneficenza circa 37 miliardi di dollari del suo patrimonio (stimato in 44 miliardi).
E' la piu' grande donazione di tutti i tempi. Per fare un paragone basti pensare che in passato altri due giganti della filantropia, John D. Rockefeller e Andrew Carnegie arrivarono, insieme, a donare 11,7 miliardi di dollari attuali.
La decisione di Buffett segue di pochi giorni l'annuncio di Gates di volersi ritirare dalla Microsoft per dedicarsi completamente alla sua Fondazione, e c'e' chi sostiene che i due eventi siano strettamente collegati, anche se i due smentiscono.
Secondo altri invece la scelta di Buffett sarebbe ricaduta su Gates perche' come lui stesso dice "la filantropia e' un gioco piu' duro degli affari". In pratica Buffett pensa di dar via i suoi soldi usando la stessa tecnica che gli ha permesso di diventare miliardario: efficienza e manager di talento.
E chi meglio del capo della Microsoft? Grazie ai fondi di Buffet, la Bill & Melinda Gates diventa la seconda fondazione piu' ricca del mondo, con un patrimonio stimato in circa 70 miliardi di dollari (al primo posto c'e' la Fondazione Stichting Ingka creata dalla svedese Ikea).
Ma 70 miliardi di dollari (in realta' saranno disponibili circa 3 miliardi all'anno) potrebbero diventare un problema.
Con l'iniezione di bonta' di Buffett, la fondazione dovra' raddoppiare il personale assumendo 240 nuovi dipendenti, probabilmente dovra' cambiare sede, col rischio di sperperare denaro in lussuosi quartieri generali e spese di gestione e burocrazia.
Insomma, quando si parla di beneficenza facilmente ci si scontra con un paradosso di non facile soluzione. Tanto per dare un po' di cifre: secondo Action AID il 47% dei soldi che doniamo non raggiunge direttamente le popolazioni a cui li abbiamo destinati. Il 29%, ad esempio, finisce in consulenze e ricerche.
Per tornare alla Fondazione Gates: The Economist rileva che essa, ancora quando il patrimonio era di molto inferiore, gia' incontrava difficolta' nella distribuzione dei fondi, arrivando a destinare ogni anno solo il 5% delle sue risorse (1,36 miliardi di dollari). Una cifra non casuale, visto che il 5% e' il limite minimo imposto dalla legge per godere di particolari regimi fiscali.
C'e' quindi il reale rischio che questo patrimonio resti bloccato per anni, ma c'e' anche il rischio contrario, ovvero che la fondazione allarghi i suoi obiettivi e settori di intervento, lanciando centinaia di progetti seguiti da migliaia di tecnici e addetti, che non portano da nessuna parte.
Potrebbe ovviamente non essere il caso della Bill & Melinda Gates, che ha istituito un sistema di controllo dei lavori finanziati e a cui va il merito di aver sostenuto ricerche su farmaci che per le industrie farmaceutiche non avevano nessuna importanza.
In questi anni, ad esempio, e' stato destinato circa un miliardo di dollari per migliorare il rendimento scolastico nei distretti di San Diego e Cincinnati, promovendo scuole piu' piccole per essere piu' vicine agli studenti e ridimensionando quelle piu' grandi. Vi sono state tuttavia molte critiche e un rapporto di valutazione ha poi rivelato che i risultati non erano quelli sperati, tanto che la strategia del progetto venne completamente rivista. E non e' affatto facile reperire maggiori informazioni, perche' sembra che i Gates non rendano pubblici i particolari dei progetti andati male...
E altri ancora sono i rischi in cui possono incappare i Gates: lentezze burocratiche, ad esempio, o, ancora peggio, progetti importanti che hanno una sola reazione: No, thank's. E' gia' accaduto con un progetto di promozione di un farmaco antibiotico, la paromomicina, per curare un morbo presente in India. Dopo un pacco di tempo perso e 7.000 pagine presentate al governo indiano per dimostrare l'efficacia del farmaco, la Fondazione, una volta giunta sul campo, si e' resa conto che nessuno voleva saperne nulla di una nuova medicina.
In uno dei loro rapporti scrivono che, come le aziende farmaceutiche, anche le organizzazioni non profit devono studiare mercato, aspettative e misure per fabbricare la domanda.
Fabbricare la domanda... per un farmaco... benvenuti nell'era del Capitalismo filantropico.

Riusciranno Bill Gates e consorte a fare le cose fatte bene?
I trascorsi passati di buon esempio ci sono: Carnegie (uno scozzese vissuto nell'800 e uno degli uomini piu' ricchi dell'epoca) dono' 350 milioni di dollari per opere filantropiche, e di questi 59 milioni furono usati per finanziare la costruzione di ben 2.509 biblioteche pubbliche, oggi una realta' consolidata. Rockefeller, lo statunitense piu' ricco di tutti i tempi, ebbe un ruolo centrale nella nascita delle universita' di ricerca e contribui' a migliorare la formazione di migliaia di medici statunitensi che porto' alla scoperta di un vaccino contro la febbre gialla. Secondo alcune stime la sua filantropia salvo' la vita a un miliardo e mezzo di persone.
Insieme a Carnegie appartenevano a quella classe di ricchi che pensavano fosse giusto che i vincitori spartissero parte delle loro ricchezze con i vinti.
Sembra che il desiderio delle persone di donare e far vedere che donano sia pari a quello di accumulare ricchezze e questa potrebbe, il condizionale e' d'obbligo, essere una buona notizia.

In questi anni e soprattutto ora che porto avanti personalmente un'associazione benefica che opera in Africa, ho maturato l'idea che non sono i miliardi di dollari che possono risolvere i problemi dei paesi poveri.
Oggi i governi stanziano i 9/10 dei finanziamenti destinati alle attivita' umanitarie (solo 1/10 sono donazioni private), ma poi impongono dazi e tasse sui commerci, strozzano i mercati finanziando i propri agricoltori e allevatori e facendo crollare i prezzi dei prodotti.
L'esempio piu' scandaloso e' il cotone. Nel 2004 i coltivatori di cotone americani hanno ricevuto dal governo cosi' tanti soldi che hanno assorbito il 40% del mercato mondiale, colpendo le gia' fragili economie di paesi come il Benin, il Mali e il Burkina Faso.
Stesso discorso vale per riso, mais e grano.
Il Burkina Faso che ho visto io non ha bisogno di milioni di dollari di aiuti ogni anno, ha bisogno di concetti nuovi come formazione, tecnologia, dall'aratro alle cucine solari, e sviluppo.
Abbiamo stimato che la realizzazione e l'avviamento del Centro Ghélawé (www.centroghelawe.org), un progetto di formazione per l'appunto, costera' intorno ai 100mila euro e sara' fatto per durare, autosostenendosi e migliorando nel contempo la qualita' della vita di queste persone.
Invece si costruiscono edifici che poi non trovano destinazione d'uso, si fanno pozzi e dighe ma non si insegna una gestione responsabile degli stessi, in altri casi siamo li' solo per sfruttare le risorse di questi paesi.
Hanno invece bisogno di un aiuto che elimini il bisogno di aiuti.

Le informazioni di questo articolo sono tratte da un lungo articolo pubblicato da Internazionale n. 649, che a sua volta riprende un articolo dell'Economist, uno del Guardian e uno di Counterpunch.