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Il mio Sergio

Sergio Angese

Carissimi,
tre anni fa, l'11 febbraio, moriva Angese, al secolo Sergio Angeletti.
Sergio è stato un grande combattente per la libertà.
Uno che ha sempre messo la propria dignità sopra a ogni convenienza.
Uno dei più grandi disegnatori italiani, giornalista e vignettista acuto, originale e geniale, filosofo, grande amico.
In questo momento storico così strano mi piacerebbe molto sapere come la pensa, lui che non aveva gabbie mentali.
Vi racconto come lo ricordo io, buona lettura.
Gabriella

Il mio Sergio
Preferivo chiamarlo con il suo nome di battesimo, Sergio, perché mi pareva più mio, amavo l’uomo e il disegnatore che era in lui, ma non era Angese, per me, era Sergio, il mio filosofo.
Sono arrivata ad Alcatraz come una qualunque ospite nell’agosto del 1992, l’anno in cui avevano ammazzato Falcone e Borsellino, stanchissima e disgustata dalla mia città, Padova, che aveva reagito a quell’orrore con un’indifferenza colpevole. Stanca e disgustata anche dalla mia vita di manager quando manager non lo sono mai stata ... insomma cercavo altro.
La prima volta che lo vidi era, guarda caso, a cavallo di Astarte, vestito come un cow-boy solitario, non di quelli che sparano ma di quelli che vanno in giro da soli per praterie e che bastano a se stessi.
Bello? Non lo so, ma affascinante lo era senz’altro, Sergio sapeva di Uomo. Di quelli che non devono chiedere mai, ma sul serio. La voce profonda, aveva la satira dentro, ebbi subito l’impressione che se avessi detto una banalità mi avrebbe fatto sprofondare negli Inferi dell’indifferenza con uno sguardo.
Scese da cavallo e si mise a parlare con una ragazza bellissima, Angela Labellarte, la mitica cuoca di Alcatraz. Seguivo quel dialogo fatto di confidenza, intimità, un dialogo tra due persone che si vedeva che si volevano bene. Scaldava.
Lo studiai molto in quei giorni, conoscevo il suo lavoro e mi pareva impossibile che fosse quell’uomo alto e imponente a disegnare quei pupazzetti così morbidi, pieni di curve, mai dolci, per carità, ma così surreali che mi facevano immaginare il disegnatore un ragazzetto magro e coi capelli ricci e neri che andavano da tutte le parti. Sergio era l’esatto contrario. Vestiva sempre dei colori della terra: ocra, terra di Siena, marrone, verde erba, e di lino, cotone grezzo, cuoio… sapeva di terra e di cavallo, portava la barba di pochi giorni e camminava come chi è inchiodato al suolo. 
Dopo pochi mesi mi trasferivo in questo posto meraviglioso tra le colline umbre e iniziavo a lavorare con Jacopo, e da lì iniziarono anche le discussioni con Angese. Mi prendeva sempre in giro perché ero una femminista, accidenti a lui. Ma tutte quelle discussioni hanno saldato un’amicizia solida, fatta di un affetto profondo e indiscutibile. Perché al di là delle teorie e delle frasi fatte, delle ideologie e degli slogan, Sergio le donne le amava davvero e tanto.
Andava a fare colazione al bar Devil di Casa del Diavolo, tutte le mattine arrivava con la pila dei giornali, si sedeva a un tavolino e con caffè e sandwich salato leggeva e pensava, immaginando la vignetta che da lì a poche ore avrebbe mandato al giornale. Sapevo che era lì e allora capitava spesso che scendessi in paese con una scusa qualsiasi solo per passare del tempo con lui, a parlare del mondo, di un suo nuovo progetto, di politica... di qualunque cosa gli andasse di parlare. Un’ora di volo libero, davanti a un caffè, perché la giornata partisse con l’idea che l’essere umano non è solo una bestia.
Un giorno fece una storia a fumetti della valle e in particolare di una famiglia di latifondisti della zona che avevano ricevuto tutti i finanziamenti possibili per qualunque progetto agricolo. Era esilarante. Si era inventato di un progetto europeo per lo sfruttamento del “maiale in modo meno maiale” e da lì il delirio: questa famiglia che aveva dedicato “un figlio alla Patria” e cioè era andato a lavorare per l’Ufficio Tecnico del Comune, aveva avuto l’appalto per questo finanziamento e aveva quindi impilato uno sull’altro i maiali così da creare una nuova collina...
“Vedi, Gabri” mi diceva “non serve avere chissà che qualità, non serve conoscere gente importante, serve essere curiosi, aprire gli occhi… se vedi un aratro grande posteggiato in un campo piccolo, ti devi chiedere: perché? Che ci fa un attrezzo così grande in un campo così piccolo? E allora scopri che la Regione ha dato un finanziamento per l’acquisto del trattore a chi ha dei campi e allora… ecco la storia”.
E gli occhi aperti Sergio li aveva, eccome.
Lo definivo anarchico, ma solo perché nella mia testa avevo bisogno di una definizione, lui era… Sergio. Non domabile, non classificabile, riusciva sempre a capire dove c’era la fregatura e non aveva paura di scagliarsi come un Davide del Far West contro tutti i Golia prepotenti che avevano la sfortuna di rompergli le scatole. Ma non era cinico e a ogni prepotenza reagiva con rabbia, e ci metteva il sangue.
Mi diceva spesso: “Se potessi non disegnerei, starei seduto su un’amaca a osservare il mondo” ma non era vero e lo sapeva anche lui. Sì, magari non avrebbe disegnato ma non avrebbe mai rinunciato a dire la sua, magari con una scultura o chiacchierando con i clienti del ristorante in riva al mare che sognava di aprire un giorno: “Pochi, eh? Non una roba grande, trenta posti, anche meno, ma cibo buono e buona conversazione, gente vera, ché di fighetti non ne voglio”.
Mi colpiva il suo coraggio nel dire sempre quello che pensava a chiunque. Si sedeva al ristorante di Alcatraz e potevi essere certa che nel giro di pochi minuti quella che fino allora era stata una conversazione banale diventava una discussione infuocata, vera, sanguigna. Sergio non ti permetteva di distrarti, odiava la noia e sapeva volare. Parlava di Mozart e della sua geometria della musica, di disegno, di scultura, e di un’altra idea per un giornale, per una scuola di fumetto che insegnasse a guardare i grandi trattori in piccoli campi.
Abbiamo anche lavorato insieme a L’Eco della Carogna, curavo la rubrica delle lettere. Qualcuna era vera, qualcun’altra no. Un giorno mi mise in mano il Rimario della Hoepli e mi disse: questo mese le facciamo tutte in rima baciata… ostrega… mi misi al lavoro e quando ebbi finito le lettere erano tutte in rima e mi accorsi che erano passate cinque ore e mi erano sembrate solo pochi minuti. Potenza dell’incanto della scrittura.
Ogni anno il giorno di Pasqua è ormai tradizione che a casa mia si organizzi la colazione, che poi diventa pranzo e a volte pure cena… dalle 9 in poi del mattino le porte di casa sono aperte a chiunque desideri passare, una grande tavola piena di cose da mangiare e da bere accoglie gli ospiti, ci son stati anni che non conoscevo neppure chi arrivava e qualche sconosciuto mi ha messo in mano un piatto.
Sergio in questa giornata era l’ospite d’onore, arrivava presto e se ne andava tardi, sempre seduto allo stesso posto mangiava pochissimo, fumava sigarette che si faceva da solo e raccontava e ascoltava… la gente andava e veniva e lui era lì, una roccia di fronte al mare verde delle colline. Ero orgogliosa che ci fosse. Oltre alle uova e al salame di Pasqua era la filosofia, l’arguzia, l’ironia, la satira di Sergio. Da quando è andato via la mia domenica di Pasqua si è impoverita.
L’ultima volta che abbiamo parlato sul serio era venuto a trovarmi al capannone di Merci Dolci, aveva un trench lungo che adoravo, di quelli che ricordano lunghi viaggi in terre disabitate. Quella mattina avevo molto lavoro da fare ma quando si è seduto davanti alla mia scrivania e ha iniziato a dire: “Ho avuto un’idea…” ho chiuso il computer, nessun lavoro mi avrebbe impedito di sentire l’ultima idea geniale del mio artista preferito. Quel giorno mi disse anche di non sentirsi bene e che si sarebbe ricoverato in clinica di lì a poco.
Il 24 dicembre andai a trovarlo in un brutto ospedale pubblico, dopo quella operazione chirurgica da cui non si sarebbe dovuto svegliare. Era insofferente, mille tubi portavano dentro cibo e fuori tossine. Il mio Sergio schiumava di rabbia perché non lo avevano lasciato morire da uomo…
Da lì fu ricoverato all’Hospice, una struttura molto bella che mi fece visitare camminando piano, era magrissimo, la voce roca… mangiò due tortellini che gli aveva mandato Angela, più per cortesia che per fame… seguiva con lo sguardo Ceres e vi posso assicurare che in quello sguardo c’era l’amore di una vita.
La festa per il suo viaggio è stata bella, piena della gente che l’ha conosciuto e amato e nella sua tomba Jacopo ha messo pennarello e carta, altri qualche sigaretta, altri fiori… e Giulia ha portato un ciuffo della coda di Astarte, il suo cavallo.
Beh… non è stata una vita noiosa eh, Sergio? E’ stata piena di cose, di donne, di disegni, come quello che mi hai regalato per un mio compleanno… c’è una donnina grassa che vola sulle colline attaccata a un solo palloncino, si vede che porta assurde mutandine rosa e la scritta sotto dice: l’insostenibile leggerezza di Alcatraz. Era come mi vedevi tu, ed era bella.