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Aggiornato: 43 min 27 sec fa

La leggenda del Castelluccio

Gio, 11/27/2025 - 16:05

La Leggenda del Castelluccio di Gela parla di una bellissima castellana dalla lunga chioma nera che attirava tutti i passanti e i contadini con i suoi canti melodiosi.

Si narra che la bella castellana fosse di corporatura esile, che indossavsse un meraviglioso manto blu e argento, truccata con uno strano rossetto verde.  Era una figura dotata di fascino misterioso perché tanto bella quanto crudele, severa e intransigente con i servitori, ambigua, sfuggente.

Durante le sue giornate si occupava della servitù e si prendeva cura dei cavalli.

Tanti uomini erano attratti dalla sua bellezza e dalla sua voce, ma chiunque tentava di avvicinarsi poi scompariva nel nulla.

Chi doveva discutere di affari con lei, inviava i messaggi con i piccioni. Ma anche quelli non facevano più ritorno.

Alcuni raccontano di aver visto di notte un cavaliere con l’armatura aggirarsi intorno alla fortezza, per poi scomparire nell’oscurità.

Questi strani eventi mettevano certamente paura ai numerosi viandanti che, spesso, evitavano di avvicinarsi troppo al castello.

Si racconta anche che fra quelle mura secolari del castello vi fossero dei fantasmi e ombre.

Si dice inoltre che ci fosse nascosto un tesoro ovvero “a travatura” ma finora nessuno è mai riuscito a trovarne traccia.

Non si sa se la Castellana sia veramente esistita in questo castello ma ciò che è vero è che all’interno del castello ci sono dei tunnel sotterranei che lo collegano fin dentro la città di Gela.

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I rami ‘che ficu

Gio, 11/27/2025 - 16:00

I “rami ‘che ficu” sono, a Gela, i più gustosi e tradizionali dolci di Natale.

Ingredienti necessari e peculiari sono i fichi essiccati durante l’estate.

Il ripieno di questi dolci noti e amati si ottiene con un impasto, appunto, di fichi secchi e vino cotto, anch’esso preparato durante il periodo della vendemmia.

Solitamente i “rami” sono ricoperti dalla “ghiacciata”, un composto emulsionato di zucchero a velo e albume.

Questi dolcetti, preparati quasi esclusivamente durante le festività natalizie, richiamano fortemente le antiche tradizioni.

 Ingredienti:
-½ chilo di farina
-15 gr di lievito
-4 tuorli
-150 gr di strutto o burro
-250 gr di zucchero
-scorza di limone
-1 bustina di vanillina

Per il ripieno:
-200g fichi secchi
-150g mandorle
-buccia d’arancia
– 2 cucchiai di vino cotto o marsala
-un pizzico di cannella

Per la glassa:
-2 albumi
-100g di zucchero a velo
-succo di limone q.b.
-codette colorate per la decorazione

Preparazione:
Procedete sbollentando i fichi secchi, in acqua calda per un paio di minuti.

Tritare finemente i fichi secchi appena sbollentati con una lama ben affilata, se volete, potete anche usare un passaverdure.

In una pentola, versare i fichi secchi tritati, aggiungendo la scorza di un’arancia.

Unire al composto del vino cotto o del marsala e far cuocere a fiamma molto bassa per alcuni minuti.

Nel frattempo tritare le mandorle, possibilmente tostate, e aggiungerle al composto assieme, se volete, a una spolverata di cannella.

Mescolare fino a quando il composto sarà ben amalgamato, e poi, lasciatelo riposare per qualche ora.

Procediamo a questo punto a preparare la pasta frolla.

In una ciotola aggiungete alla farina la vanillina e il lievito per dolci. Incorporate lo strutto o il burro, e lavorate velocemente il composto. Aggiungete un pizzico di sale, la scorza di limone grattugiata e i tuorli.

Lavorate l’impasto fino a ottenere un composto omogeneo e liscio.

Avvolgere la frolla con della pellicola da cucina e lasciarla riposare in frigo per un’ora o anche più.

Trascorso questo tempo, procedete stendendo la frolla con l’ausilio di un mattarello, dandole una forma rettangolare.

Farcite adesso la frolla con il ripieno di fichi secchi.

Richiudete la frolla in modo da formare una specie di salsicciotto.

A questo punto, con un coltello, tagliate la frolla in modo da formare dei tronchetti di pasta, ricordandovi di fare, ai lati, le incisioni classiche dei “rami che ficu”

Infornare in forno preriscaldato a 200° sino a quando non si saranno dorati.

A questo punto, tirateli fuori dal forno e lasciateli raffreddare.

Nel frattempo che i “rami che ficu” si raffreddino, prepariamo la “ghiacciata”, ovvero glassa di zucchero.

Lavorate, mediante le fruste l’albume fino a quando vedrete che comincia a diventare bianco, stando attenti a non montarlo a neve.

Aggiungete, molto lentamente, lo zucchero a velo e qualche goccia di limone, mescolando con una spatola, sino a quando non otterrete una glassa bianca.

A questo punto, tramite un pennello, spennellate i “rami” con la glassa.

Aggiungete se volete delle decorazioni, io ho usato delle codette colorate.

Rimettete i “rami” nel forno caldo ma spento, per far si che la glassa si solidifichi.

I vostri “rami che ficu” sono pronti per deliziare il palato di grandi e piccini durante queste feste.

Buon appetito e buone feste!

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A pasta ‘co capuliatu

Lun, 10/27/2025 - 20:55

Può capitare che all’improvviso vi arrivino ospiti a sorpresa e, allora, preparare una ricetta in poco tempo diventa un’occasione per stare piacevolmente insieme, magari preparando qualcosa di genuino e al contempo sfizioso.

Una ricetta alla quale si può ricorrere in queste occasioni, facendo sicuramente bella figura, è a pasta ‘co capuliatu.

E’ risaputo che i pomodori secchi rappresentino una miniera di sostanze benefiche per l’organismo come sali minerali, e soprattutto licopene.

E’ per questo che propongo oggi la ricetta tradizionale gelese a pasta ‘co capuliato, semplice, veloce e molto…salutare!

 

Ingredienti per 4 persone:

-400g spaghetti (preferibilmente trafilati al bronzo)

-150g di capuliato

-3 spicchi d’aglio

-prezzemolo tritato q.b.

-peperoncino q.b.

-parmigiano q.b.

-olio extra vergine d’oliva q.b.

-sale q.b.

Procedimento:

Soffriggere in un tegame gli spicchi di aglio con olio extra vergine d’oliva

Non appena gli spicchi d’aglio si saranno leggermente imbionditi, aggiungere il capuliato e farlo cuocere a fiamma moderata per pochi minuti

Sminuzzare il prezzemolo con lame taglienti, in modo da preservarne la fragranza.

Nel frattempo far cuocere gli spaghetti, utilizzando preferibilmente un tipo di pasta “ruvida”,  in modo da ottenere una giusta emulsione tra pasta e capuliato.

A cottura quasi ultimata, scolare la pasta, prestando attenzione a conservare un po’ di acqua di cottura e aggiungerla al capuliato dopo aver tolto gli spicchi d’aglio.

Mantecare a fuoco basso per alcuni minuti, aggiungendo se necessario qualche cucchiaio di acqua di cottura.

Aggiungere prezzemolo tritato, peperoncino e parmigiano e servire.

Buon appetito!

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Andrea Camilleri e il “giorno dei morti”

Lun, 10/27/2025 - 19:04

“Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire”.

fonte articolo: da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri

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Nasce Macchitella Lab, un polo aperto alla formazione e alla innovazione

Mer, 10/08/2025 - 10:54

 

Macchitella Lab è il risultato della rinascita e trasformazione dell’ex Casa Albergo dell’Eni a Gela, una struttura costruita all’inizio degli anni Sessanta nel cuore del quartiere di Macchitella per ospitare il personale dell’Eni.

L’edificio, completamente riqualificato e ristrutturato, firmato dagli architetti Vincenzo Castellana e Rosanna Zafarana, è stato ceduto da Eni in comodato d’uso al Comune di Gela per due anni, con possibilità di proroga. I lavori, dal valore di circa tre milioni di euro, sono stati interamente finanziati attraverso i fondi delle compensazioni industriali dovute per la città. Riqualificata anche l’area esterna.

Oggi Macchitella Lab diventa un polo aperto a formazione, imprenditorialità, innovazione giovanile e rigenerazione sociale, con ambienti di coworking, laboratori, spazi per start up.

 Eni e il Comune di Gela sono affiancati nello sviluppo del progetto anche  dall’Università Kore di Enna, da Sicindustria e dalla Fondazione Enrico Mattei.

“Questo iconico immobile, dopo un lungo percorso, a tratti anche complesso, diventa finalmente disponibile e fruibile per tutta la comunità”, ha affermato Walter Rizzi, in rappresentanza della Bioraffineria di Gela Enilive. “Macchitella Lab sarà un polo polifunzionale al servizio di tutta la cittadinanza. Segno tangibile dell’impegno di Eni verso il territorio, in particolare verso le nuove generazioni”.

Per il sindaco di Gela, Terenziano Di Stefano, Macchitella Lab “era un impegno della nostra amministrazione: da qui partiranno corsi universitari, incubatori d’impresa e attività per i giovani e incarnerà il simbolo di una città che non vuole arrendersi. Macchitella Lab sarà il punto di riferimento per chi vuole investire su sé stesso e sul proprio territorio, sviluppando idee e innovazioni per creare il proprio futuro”.

Foto: Archilovers.com

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