Yunus, annuncia la fine della fame nel mondo
Inviato da Jacopo Fo il Mer, 06/04/2008 - 15:23Cellulare per ricchi, tempestato d diamanti. Nokia delirio.
A proposito del BUSINESS SOCIALE proposto da Yunus, delle bugie sulla fame della Fao, dei censori e dell’opposizione per finta.
La notizia che i media oggi non hanno dato riguarda l’atto d’accusa di molti contro le bugie sui morti per denutrizione (vedi discorso di Lula http://www.jacopofo.com/lula_fame_mondo_biocarburanti)
La verità taciuta è che la fame nel mondo è causata principalmente dai dazi doganali e dai finanziamenti all’agricoltura nei paesi più ricchi che impediscono ai popoli del terzo mondo di competere alla pari: gli agricoltori poveri non riescono a reggere la concorrenza, quindi falliscono, perdono le loro terre e diventano diseredati e affamati.
Questo è il grande crimine!
(Vedi più sotto a proposito della crisi del riso di Haiti e dei sussidi agricoli, CITO DUE ARTICOLI MOLTO INTERESSANTI)
Ed è vergognoso che quasi nessuno lo dica e ci dobbiamo sorbire le cazzate dei nostri politici.
E i giornalisti zitti davanti a Bush che promette 200 milioni di dollari e Berlusconi che vuole raddoppiare gli aiuti ma metterli fuori dal bilancio dello stato per non sforare i vincoli di bilancio dell’Unione Europea. Una cosa idiota che non c’entra nulla con la fame nel mondo.
Aiuti buttati dalla finestra. Da una parte si danno soldi che in gran parte ritornano nelle tasche dell’economia occidentale, dall’altra si mantengono i vincoli commerciali e i finanziamenti all’agricoltura!
Ed è strano che il Movimento eco pacifista sia restato muto su questa questione. Se cerchi sui motori di ricerca troverai ben pochi articoli su questo tema pubblicati dai siti del Movimento ecopacifista.
C’è un riflusso peloso.
L’altra notizia che non ho visto da nessuna parte non è proprio uno scup, è una notizia vecchia di due anni, ce la racconta Muhammad Yunus, premio Nobel e banchiere dei poveri.
Nel suo ultimo libro, “Un mondo senza povertà” (Feltrinelli).
In questo libro annuncia i successi della banca dei poveri e la nuova fase nella quale sono entrati e che promette, semplicemente, la fine della povertà.
Yunus è quello che può dire di aver tirato fuori dalla miseria 100 milioni di donne in tutto il mondo grazie a piccoli prestiti finalizzati all’auto impresa. Non c’è nessuno che sia riuscito a realizzare niente di simile.
Ora, nel suo nuovo libro, Yunus ci spalanca una nuova prospettiva (vera) di lotta alla povertà.
Come suo solito lo fa andando controcorrente e mettendo in pratica strategie che scandalizzano la buona parte del mondo del Movimento solidale, almeno di quello italiano.
Nel 2006 è nata una società tra la banca dei poveri di Yunus (Grameen Bank) e la multinazionale Danone leader mondiale nel settore alimentare (in Usa si chiama Dannon).
Quel che ha fatto Yunus è qualche cosa di veramente geniale.
Parte da un problema concreto: i bambini del Bangladesh si ammalano e muoiono perché dopo l’allattamento mangiano solo riso. Serve un alimento ricco di vitamine e proteine adatto allo svezzamento. Studiano il problema e scoprono che la cosa migliore sarebbe uno yogurt arricchito.
Domanda:
Come facciamo a far sì che milioni di bambini possano mangiare questo yogurt nei prossimi decenni?
Soluzioni:
1) Facciamo una raccolta di fondi e regaliamo
Yogurt. No, perché servirebbe una quantità di denaro impensabile, ogni anno, per sempre.
2) Creiamo una società, un’impresa capitalista, di nuovo tipo. I finanziatori (la Danone) mettono i soldi ma rinunciano a guadagnarci. Potranno soltanto riavere i loro soldi rivalutati rispetto all’inflazione. Ma attenzione lo scopo della società è fare utili per potersi sviluppare. L’obiettivo di questa Spa non è quella di guadagnare il più possibile, non è quello di regalare, vuole essere un’impresa sana, con i conti in attivo ma il suo obiettivo è raggiungere questo scopo vendendo yogurt per lo svezzamento al prezzo più basso possibile, senza perderci.
La soluzione del problema nasce da una concezione diversa della logistica.
Innanzi tutto tagliano un costo principale che è quello di conservare e trasportare al freddo lo yogurt. Invece di costruire una grande fabbrica ne costruiscono tante piccole che servono una zona limitata dove il prodotto viene realizzato e consumato in giornata. Questo semplice accorgimento permette di tagliare enormemente i costi offrendo al contempo un prodotto migliore.
Semplice e geniale. E funziona.
E attenzione: l’azienda finanziatrice rinuncia alla rendita finanziaria dell’investimento ma non ci rimette in quanto il denaro verrà rivalutato.
Ma l’azienda ottiene un guadagno ben maggiore di quello che perde, in termini di pubblicità. In questo articolo sto parlando bene della Danone e sto cercando di convincerti che sono capitalisti di tipo nuovo che hanno dato vita a una delle più grandi rivoluzioni di questo secolo. E questo lo faccio per convinzione senza che la Danone mi abbia dato un solo euro.
E la Danone ottiene anche un clamoroso successo verso i suoi dipendenti che possono avere la soddisfazione di vedere che il frutto del loro lavoro non finisce solo in donne e champagne per gli azionisti ma viene utilizzato per salvare la vita di migliaia di bambini. E si sa che i dipendenti motivati lavorano meglio e hanno meno voglia di sabotare l’azienda per dispetto. E anche questi sono soldi!
Ecco che Yunus e la Danone hanno inventato un nuovo modello di impresa capitalista che riesce a dare utili notevolissimi a costi irrisori. Quel che ci rimette la Danone sono i soldi che potrebbe guadagnare investendo il capitale immobilzzato. Ma il capitale continua a essere suo.
Quando le aziende spendono denaro in pubblicità non lo vedono più. In questo caso la Danone si paga la pubblicità rinunciando a utili (ipotetici).
Ma c’è un altro elemento interessante dal punto di vista economico che Yunus ci fa capire.
Sono i dirigenti della Danone che contattano Yunus. Sono loro a dirgli: abbiamo un sacco di soldi, vorremmo combinare qualche cosa di buono, avrebbe mica un’idea nella quale potremmo spendere una vagonata di milioni di euro?
La Danone è l’azienda che ha gestito in modo più geniale la propria attività umanitaria ma non è la sola. Bill Gates ha scelto di donare 50 miliardi di dollari (che una volta erano circa 100 MILA miliardi di lire) e molti altri lo hanno imitato con cifre superiori al miliardo di euro (duemila miliardi di lire).
Ora ammetterete che donazioni di questo calibro ci costringono a rivedere l’immagine del capitalista pronto a sterminare i bambini per un dollaro in più.
Esiste pure quello. I petrolieri e i venditori di armi hanno fatto l’impossibile per ottenere una bella guerra in Iraq, con un numero di morti civili che viene valutato dai 650 mila al milione.
Ma esiste anche un capitalismo che ha identificato la solidarietà come un lusso irrinunciabile. Preferiscono cercare di vivere in un mondo migliore piuttosto che comprarsi altre 100 Ferrari, altre 10 barche a vela e altri 10 aerei da gran turismo.
Chi l’avrebbe detto che la ricchezza estrema avrebbe generato qualche cosa di buono?
E vorrei anche osservare che Yunus ha organizzato questa Spa umanitaria dedita allo sviluppo ma non alla massificazione dei profitti, in modo molto particolare.
Ad esempio i manager del progetto sono dirigenti Danone, pagati a suon di milioni di dollari.
Yunus non ha chiesto che gli venisse ridotto lo stipendio. E questo va contro una delle leggi della morale solidaristica. Sono anni che attacchiamo i funzionari Onu che si occupano di fame del mondo con stipendi da favola.
Ma a Yunus non interessa. Ha bisogno dei migliori del mondo per progettare le linee di ricerca, produzione e distribuzione di uno yogurt che oggi esiste e costa pochissimo.
E reputa conveniente pagarli a livello capitalista.
Attenzione Yunus non dice che questo sia l’unico sistema GIUSTO.
Lui dice: va benissimo l’organizzazione che aiuta elargendo aiuti senza chiedere niente e si regge sulle donazioni, come Emergency; va benissimo l’organizzazione commerciale solidale come la banca dei poveri o il commercio equo, che sono un’impresa, devono avere i conti in attivo ma utilizzano anche volontari non pagati e danno stipendi con un “tetto morale” medio basso; va bene anche l’impresa capitalistica classica che si limita a devolvere in imprese umanitarie una quota degli utili; tutto questo va bene ma ci serve anche qualche cosa d’altro.
La povertà è legata soprattutto alla mancanza di opportunità per i poveri. La banca dei poveri, le reti cellulari per collegare i paesi più sperduti alle linee telefoniche e a internet, la creazione di scuole di impresa studiate per i micro imprenditori individuali, vanno in questo senso: offrono accesso a possibilità.
Ma per affrontare i problemi della povertà ci serve anche che arrivino sul mercato in quantità massiccia prodotti a basso costo e alta qualità. Prodotti studiati apposta per i più poveri, fatti su misura per le loro esigenze, dalo yogurt arricchito alla tanica a forma di ruota alle pompe solare e al computer a basso costo. Ideare e progettare questi nuovi prodotti è difficilissimo proprio perché sono rivolti a clienti molto particolari. Questi nuovi prodotti richiedono investimenti colossali e tempi lunghi di ritorno che le imprese del no-profit classico non possono affrontare.
Inoltre non è pensabile inventare da zero una struttura industriale capace di creare decine di prodotti diversi, è molto più semplice, e economico, associarsi con aziende che hanno uomini, mezzi e conoscenze (anche se i loro manager sono super pagati).
Ecco da dove nasce l’idea della joint venture tra imprese solidali e multinazionali per la creazione di questo BUSINESS SOCIALE (come lo battezza Yunus).
E’ esattamente il problema che ci troviamo di fronte noi in Italia. Le ecotecnologie potrebbero rendere più ricche le famiglie dei lavoratori, aiutandole ad arrivare alla fine del mese.
Oggi potremmo ad esempio mettere in commercio un’auto elettrica che costa come un’utilitaria e fa 100 chilometri a 100 all’ora con 1 euro e ha 150 km di autonomia ( www.selvas.org
). Oppure potremmo avere una nostra compagnia cellulare che ti fa telefonare via internet con un risparmio del 95% sulla bolletta.
Oppure potremmo creare un sistema che integrare il sistema di prestiti diretti risparmiatore-creditore (come quello proposto da a href=" http://www.zopa.it/ZopaWeb/"> Beppe Grillo) con un sistema di brocheraggio sui mutui e consulenza per offrire alle famiglie la possibilità di ricontrattare in modo sensato il mutuo firmato a condizioni vicine allo strozzinaggio.
Si potrebbe farlo. Sarebbe un reale beneficio per chi non ha soldi. Sarebbe un’impresa che potrebbe autofinanziarsi… Non si riesce ancora a fare perché si tratta di realizzazioni tecnicamente molto complesse che richiedono un investimento notevole di soldi e competenze. Mettere sul mercato un’auto elettrica affidabile, competitiva, economica, certificata è possibile teoricamente e è facile a dirsi. Sono due mesi che ci lavoriamo e più andiamo avanti più troviamo difficoltà. C’è la tecnologia, ci sono le officine, ci sono esperienze consolidate, istituti di certificazione validi, c’è richiesta di auto elettriche… Eppure gli aspetti tecnici ci bloccano continuamente. Quel che ci manca innanzi tutto è proprio un management professionale che sia al livello del problema e poi mancano i soldi per comprare all’ingrosso batterie e motori. Se compri dieci set di batterie per volta il prezzo schizza in alto!
Il problema è che abbiamo almeno 3 milioni di persone che si riconoscono nei discorsi di Beppe Grillo e le idee ecosolidali ma solo poche migliaia comprendono la potenzialità e la necessità di costruire nuovi consumi creando nuove merci e nuovi sistemi di distribuzione di produzione e di acquisto consociato. Si guarda altrove mentre è qui che possiamo dare i maggiori risultati in termini di diminuzione della miseria e delle sofferenze e di sviluppo delle opportunità.
Sicuramente la discesa in campo su questo terreno di Yunus darà nuova forza a questo modo di vedere le cose: affrontiamo i grandi problemi con strumenti imprenditoriali laddove i sistemi soltanto solidaristici non funzionano.
E alla fine avremo anche l’auto elettrica a basso costo. In fondo ci basta che la Fiat ci telefoni proponendoci una joint venture nel settore del business sociale.
Dici che la Fiat non è la Danone?
Cazzo. Ho paura che c’hai ragione.
E se provassimo a lanciare una campagna di lodi sperticate verso la Danone?
Proposta: pubblichiamo su ogni sito una elegia della Danone.
Magari a qualche capitalista italiano gli viene l’invidia.
Aderisci anche tu. Modestamente è un’idea geniale.
Ecco un esempio di inno alla Danone.
Oh Danone, Danone
Fai lo yogurt per la donna cannone
per l’uomo che aspetta alla stazione
Lo succhio cantando questa canzone
Oh Danone,
tu non fai solo lo yogurt per passione
tu hai un cuore
nel refrigeratore
tu fai lo yogurt anche per il bambino
quello poverino
gracile come un grissino
fai lo yogurt speciale
che da una forza eccezionale
e lo vendi per un centesimo
alla sua mamma
che è contenta mentre
lo mette a nanna.
Grazie Danone
Hai fatto la rivoluzione.
(PS
suppongo che questa canzone vincerà il festival di San Remo e un paio di Emmy Award. Non sono ottimista. Sono realista.)
GENOCIDIO COMMERCIALE: COME UCCIDERE CON I SUSSIDI ALL’AGRICOLTURA
DA
www.selvas.org
Trent’anni fa Haiti coltivava tutto il riso di cui aveva bisogno, cosa è accaduto? I recenti disordini dovuti all’assurdo aumento del costo dei generi alimentari sono costati la vita a 6 persone. Ci sono stati disordini anche in altri Paesi, come in Burkina Faso, Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, Guinea, Mauritania, Messico, Marocco, Senegal, Uzbekistan, Yemen e altri. The Economist, che ha definito la crisi “il silenzioso tsunami” riporta che lo scorso anno il prezzo della farina è aumentato del 77% ed il riso del 16%, ma da gennaio il riso è aumentato del 141%. Hermite Joseph, madre di due bambini che lavora nel mercato di Port-au-Prince, dichiara: prima, con un dollaro e 25 centesimi potevi acquistare della verdura, riso, 10 centesimi di carbone, ed un po’ d’olio per cucinare. Adesso una piccola latta di riso costa da sola 65 centesimi e non è affatto del buon riso. L’olio costa 25 centesimi, il carbone 25 centesimi. Con un dollaro e 25 cents non riesci nemmeno più a preparare un piatto di riso per un bambino!
La chiesa di St. Claire, serve 1.000 pasti gratuiti al giorno, quasi tutti a bambini affamati. I bambini di Cité Soleil camminano per 8 chilometri per raggiungere la chiesa e ricevere un pasto. Il costo di riso, fagioli, verdura, carne, olio da cucina, propano per le stufe sono aumentati drammaticamente e le porzioni di cibo sono di conseguenza più piccole, ma la fame cresce e sempre più bambini raggiungono la chiesa per un pasto gratuito. Gli adulti usavano attendere che i bimbi si fossero sfamati per cibarsi a loro volta di ciò che restava, ma ora non resta più nulla. Nel 1986, dopo l’espulsione del dittatore Jean Claude Duvalier (Baby Doc) il Fondo Monetario Internazionale ha concesso un prestito di 24,6 milioni di dollari, dei quali il Paese aveva disperato bisogno dopo che il dittatore aveva depredato i fondi che, in parte, si trovano ancora in una banca svizzera, senza che Haiti riesca a farseli restituire. Per concedere il prestito l’FMI ha preteso la riduzione delle tariffe d’importazione del riso e di altri prodotti agricoli, aprendo il mercato alla concorrenza di altri Paesi.
Il dott. Paul Farmer, medico che ha vissuto molti anni nelle zone rurali, era ad Haiti quando è successo “In meno di due anni è diventato impossibile per gli agricoltori haitiani competere con quello che chiamano il “riso di Miami” L’intero mercato del riso locale ha ceduto al riso a basso costo, sostenuto da lauti sussidi, proveniente dagli USA. Ci furono violente proteste, una “guerra del riso” ed alcuni agricoltori persero la vita. “Il riso americano ha invaso il Paese” ricorda Charles Suffrard, un agricoltore durante un’intervista al Washington Post nel 2000. “Dal 1987 al 1988 arrivò così tanto riso che molti smisero di lavorare la terra” La gente dalle campagne, perso il lavoro, si trasferì in città. Ma ancora, la comunità internazionale degli affari non era soddisfatta.
Nel 1994, quale condizione per “ripristinare la democrazia” (essenzialmente per porre fine agli sbarchi di migliaia di disperati sulle coste della Florida, che fuggivano le violenze della dittatura militare di Cedras)e ricondurre nel Paese il Presidente legittimo Jean-Bertrand Aristide , che gli stessi USA avevano rovesciato 3 anni prima con un violento colpo di stato, Stati Uniti, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, imposero una ancora maggiore apertura del mercato. Le tariffe doganali sull'importazione del riso scesero al 3%. Ma quale ragione poteva indurre gli Stati Uniti a distruggere il mercato interno del Paese più povero del continente americano, dove più di metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno? Ebbene Haiti è diventato uno dei maggiori importatori di riso dagli USA: il Dipartimento dell'agricoltura indica Haiti come il terzo maggiore importatore, per 240.000 tonnellate di riso all'anno.
I coltivatori di riso degli Stati Uniti ricevono forti sussidi: fra il 1995 ed il 2006 i sussidi concessi hanno raggiunto gli 11 miliardi di dollari. Un solo produttore, la Riceland Foods Inc. di Stuttgart Arkansas, ha ricevuto in sussidi 500 milioni di dollari fra il 1995 ed il 2006. Il riso è uno dei prodotti che viene maggiormente sovvenzionato negli USA, con tre differenti tipi di sussidi. Le sovvenzioni programmate per i prossimi anni, almeno fino al 2015, ammontano a 700 milioni di dollari per anno. Il risultato? Decine di milioni di coltivatori di riso nei Paesi poveri non riescono più a mantenere le proprie famiglie a causa del bassissimo e volatile prezzo dovuto alla politica interventistica dei Paesi più ricchi. In più, negli USA le barriere doganali sul riso raggiungono anche il 24%, lo stesso tipo di protezione che Stati Uniti e FMI hanno preteso venisse eliminata dai governi di Haiti.
Ma non sono solo i produttori di riso ad essere stati colpiti.
Paul Farmer ha visto succedere la stessa cosa ai produttori di zucchero di canna. Una volta Haiti era il maggior esportatore di zucchero ed altri prodotti tropicali in Europa. Adesso sta importando persino lo zucchero dalle compagnie che lo producono nella Repubblica Dominicana, controllate dagli USA, e dalla Florida. “E' stato terribile vedere gli agricoltori Haitiani espulsi dal loro lavoro. Tutto questo è stato l'inizio di quella spirale che ha portato alle proteste per fame di questi giorni”
Illuminante per capire parte dela storia recente di Haiti è l'esempio riportato dallo stesso Jean-Bertrand Aristide, Anno 2000, nel su trattato "Eyes of the Heart: Seeking a Path for the Poor in the Age of Globalization".
E CITO ANCHE QUESTO PEZZO TRATTO DA
VOLONTARI PER LO SVILUPPO
Dossier
Esportazioni fatali
In Ghana il concentrato di pomodoro che arriva dall'Italia costa cinque volte meno dei pomodori locali. In Nigeria la carne più economica è quella importata da Germania e Inghilterra. E ancora: il 67% del latte consumato in Giamaica è di provenienza europea, e gli allevatori locali devono buttar via migliaia di litri di latte. Effetti perversi del dumping, cioè la vendita di beni al di sotto del costo di produzione e del prezzo di mercato. Frutto di una politica che tutela le grandi imprese del Nord, affossando i piccoli produttori del Sud.
di Emanuele Fantini
Si scrive dumping, ma si può tranquillamente leggere "concorrenza sleale". Si tratta di un termine inglese che spiega come mai, in un mondo dove oltre un miliardo di persone deve sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, una mucca europea ne riceva invece ben due e mezzo e una sua collega giapponese addirittura sette. Grazie a questa cospicua dote, l'Unione europea è diventata il secondo produttore e il primo esportatore di carne bovina. In seguito alla crisi della mucca pazza e al crollo del 20% dei consumi di carne bovina in Europa, gli stock comunitari sono ulteriormente aumentati e le mucche del continente hanno girato ancora di più il mondo. Germania e Inghilterra hanno pensato bene di smaltire le loro eccedenze in Nigeria, esportandole al patetico prezzo di 0,2 euro al chilo e destabilizzando i mercati locali.
Bingo? No, più semplicemente, dumping.
Il problema delle eccedenze
Nei manuali di economia, il dumping viene definito come la vendita di prodotti al di sotto del costo di produzione e al di sotto del prezzo mondiale di mercato. Nella vita di tutti i giorni questo si traduce, ad esempio, nel fatto che in Ghana il concentrato di pomodoro prodotto in Italia costi cinque volte meno rispetto ai pomodori freschi locali. Difficile da giustificare con il costo di manodopera più basso, o con minori spese di produzione e trasporto. Il trucco sta infatti nei sussidi che i paesi industrializzati concedono ai loro produttori per favorire lo smaltimento delle eccedenze agricole.
In Europa, tutto ha origine negli anni '50, quando i sei paesi fondatori dell'allora Comunità economica europea, ancora traumatizzati dal recente passato di guerra e fame, danno vita alla Politica agricola comunitaria (Pac). Gli obiettivi principali sono garantire l'autosufficienza alimentare, migliorare la produttività e il tenore di vita dei contadini. All'inizio è un successo, ma negli anni '70 gli alti livelli di produttività raggiunti si traducono in saturazione del mercato e crescenti surplus. Oltre alle eccedenze agricole crescono anche le polemiche e si moltiplicano progetti e tentativi di riforma del sistema. Fino ad arrivare ai nostri giorni, quando la Pac costa 40 miliardi di euro all'anno, e comporta 23 euro in più di spesa settimanale per ogni famiglia europea. Un sacrificio per i consumatori che si traduce in un guadagno generale per i produttori europei? Non sempre, visto che il 70% dei sussidi della Pac finisce nelle tasche del 20% dei più grandi agricoltori europei. I piccoli produttori, che rappresentano il 40% dell'agricoltura europea, ricevono soltanto l'8% dei sussidi.
Concorrenza insostenibile
Ma a rimetterci sono soprattutto i paesi in via di sviluppo. In base ai dati del Rapporto sullo sviluppo umano 2002, i sussidi alle esportazioni praticati dai paesi industrializzati, in particolare Unione europea e Stati Uniti, si traducono in 100 miliardi di dollari l'anno di perdite per mancati introiti da parte dei paesi in via di sviluppo. Una somma pari al doppio dell'intero ammontare dei fondi stanziati per la cooperazione allo sviluppo. Ma prezzi più bassi non dovrebbero favorire i consumatori e migliorare l'accesso al cibo di una buona fetta della popolazione ancora malnutrita? Il problema è più complesso, perché i prodotti sovvenzionati rappresentano una concorrenza insostenibile per i produttori locali: chi ci rimette sono soprattutto i piccoli agricoltori, che perdono mercati e lavoro, con pesanti ripercussioni per il tessuto sociale e la sicurezza alimentare del paese. Più della metà della popolazione mondiale dipende dall'agricoltura o dal lavoro agricolo per il suo sostentamento. Inoltre, non sempre i prezzi per i consumatori alla fine sono più bassi: i prodotti venduti sottocosto spesso vengono utilizzati dagli intermediari locali per manipolare i prezzi a proprio vantaggio, importando e stoccando grandi quantità prima del raccolto per abbassare i prezzi da corrispondere ai produttori locali. Una volta comprati a basso costo i raccolti locali, le importazioni diminuiscono e i prezzi risalgono. I contadini ci perdono, e i consumatori non ci guadagnano.