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4 sogni in padella

4 sogni in padella

La rivoluzione vince se ci si bacia in un’altra maniera
Voti ogni volta che fai la spesa, lavori, mangi, balli o prendi il sole

Sto leggendo il libro di Carlo Petrini, Cibo e Libertà. Lo sto leggendo con molto gusto perché mi ci ritrovo. Racconta la storia di un modo diverso di fare politica progressista. Un modo che in Italia sono in pochi a praticare.
Petrini parla di approccio olistico al cibo: buono, pulito e giusto è stato uno slogan di Slow Food che ha avuto un successo mondiale e che contiene non solo un’idea diversa dell’arte di mangiare ma anche il progetto di un mondo diverso.
Ma ancora questa diversa idea dell’essere progressisti non è riuscita a contaminare il mondo della politica di sinistra.
Ero ancora un ragazzino quando, nel 1969, sentii mia madre parlare dei compagni di Bra.
Avevano organizzato una serie di spettacoli dei miei e da quell’incontro era nata una grande amicizia.
Erano persone che avevano una concezione completamente diversa della politica.
A Bra non organizzavano molti cortei e non si picchiavano con la polizia tutti i sabati come succedeva a Milano.
Avevano iniziato il loro lavoro aprendo una libreria. Poi avevano organizzato un supermercato alternativo dove vendevano cibo e altri prodotti essenziali a prezzi ribassati. Il supermercato era gestito da volontari. L’idea di gestire un supermercato come forma di lotta politica non era nuova nel movimento progressista italiano.
Era la vera ragione della sua forza: le cooperative di consumo e di lavoro avevano cambiato la qualità della vita di milioni di italiani.
Ma poi questa idea della lotta per la cooperazione aveva smesso di essere un settore essenziale di iniziativa.
I compagni di Bra si erano convinti che la cultura e la cooperazione erano le due gambe che ci avrebbero fatto camminare nella direzione giusta. Io ero entusiasta dei racconti di mia madre e pensai che queste esperienze, che si sposavano perfettamente con il lavoro portato avanti dalla mia famiglia, sarebbero state presto imitate in tutta Italia… In effetti c’erano parecchi gruppi che si muovevano in questa direzione e con i quali i miei entravano in contatto andando a recitare in posti dove il teatro non arrivava mai.
Nel 1974, al Fabbricone occupato di Milano, organizzai un piccolo supermercato alternativo con l’aiuto di Petrini che ci mandò un camion di prodotti. Ma agli occhi della maggioranza dei compagni sembravamo marziani e scoprimmo che, al di là delle chiacchiere, a nessun gruppo politico interessava avere a che fare con una simile impresa; ci trovammo isolati e l’iniziativa fallì. E destino analogo trovarono altri tentativi simili realizzati qua e là da compagni che “pensavano strano”.
Ma a Bra continuavano a sperimentare nuove vie. Aprirono una delle prime radio libere italiane.
Passarono gli anni, arrivarono quelli di piombo… A Milano avevamo occupato decine di case sfitte trasformandole in Centri Giovanili, eravamo Indiani Metropolitani, ci rifiutavamo di fare a botte con le forze dell’ordine, preferendo sfidare gli schieramenti di polizia in assetto di guerra a partite di Rubabandiera. Ci disponevamo ordinatamente di fronte alla prima fila dei poliziotti, uno di noi si metteva in mezzo, tra noi e loro, con un fazzoletto in mano e gridava un numero. Uno di noi partiva di corsa e prendeva il fazzoletto. Vincevamo sempre noi perché nessun poliziotto si metteva a correre verso il fazzoletto per via che non era una cosa in stile militare. Poi visto che perdevano si incazzavano e ci caricavano. Noi scappavamo senza reagire e quando si erano stancati di correre ci mettevamo a scandire: “Gioventù bruciata! Gioventù bruciata!” Era molto divertente e non si faceva male nessuno.
Proprio in quel periodo (1977) a furia di organizzare incontri tra disegnatori ero anche riuscito a mettere insieme un gruppo che alla fine era diventato la redazione della rivista il Male. Un presidio della satira, del pacifismo e dell’anti ideologia. A Milano lavoravo a Macondo, un incredibile mix tra un centro sociale, una discoteca, un centro commerciale e una galleria d’arte. Insegnavo a fabbricare maschere di cartapesta e dipingevo un murales immenso nella sala dove si ballava e si chiacchierava su enormi cuscini di tela grezza disposti lungo le pareti. Dipingevo una foresta con una ragazza che volava sopra un’altalena. Un’altalena uguale stava al centro della sala.
Intanto a Bra avevano aperto un ristorante: Il Boccon Di Vino. E cosa curiosa, il nome della via dove si trova ancor oggi questo ristorante è via della Mendicità Istruita. Me lo fece notare Petrini con grande entusiasmo, raccontandomi della nuova battaglia che avevano scelto.
Mentre lo ascoltavo mi chiedevo come fosse possibile che la sinistra non capisse che erano quelle le grandi battaglie che potevamo combattere e vincere.
E mi rendevo conto di quanto fosse diversa quella visione del mondo, che era anche un modo di fare e di dare importanza ai particolari.
Macondo fu chiuso dalla polizia grazie a un’abile montatura (i proprietari furono accusati di voler distribuire mezzo milione (!) di spinelli gratis). In 16 si fecero qualche settimana di prigione, i finanziatori dell’impresa sparirono e il locale chiuse.
A Roma il Male iniziò a implodere perché la maggioranza dei redattori era convinta che lavorare in modo razionale fosse un’azione moralmente riprovevole e perché il tasso chimico della redazione aveva superato il livello Hiroshima.
Io mi resi conto che c’era qualche cosa che non andava nell’idea stessa di azione politica condivisa dalla maggioranza dei progressisti. E come molti altri capii che era finita ogni speranza di cambiare il mondo alla svelta. Come tanti scelsi di rinunciare alle manifestazioni di piazza e alle grandi iniziative per concentrarmi su qualche cosa di molto circoscritto: piccolo è bello.
Agire localmente e pensare globalmente era uno slogan che mi era piaciuto. Ma il mio agire globalmente richiedeva tempi lunghi.
Curioso il fatto che gli stessi pensieri viaggiassero nelle teste di una frangia molto piccola del movimento. Furono ragionamenti che passarono di bocca in bocca, senza che a qualcuno venisse voglia di scriverli. Non ci furono appelli, manifesti, proclami.
Il movimento progressista italiano era un campo di battaglia, pieno di cadaveri e di carcasse di grandi progetti e grandi movimenti. Avevamo sognato la rivoluzione ed avevamo perso.
E dovevamo anche trovarci un lavoro, ma non avevamo certo intenzione di andare a lavorare per il nemico vincitore.
Verso la fine degli anni settanta qualche migliaio di fieri oppositori, ognuno per i fatti suoi, iniziarono a inventarsi un’attività produttiva che al contempo era anche un modo per portare avanti la rivoluzione con altri mezzi.
Un movimento numericamente piccolo che però riuscirà a cambiare almeno un po’ l’Italia e il mondo; ovunque ci fu qualcuno che prese la stessa decisione...
L’idea che ci animava era che servissero spazi dove avere rapporti umani diversi, dove far circolare cultura differente e dove poter lavorare in modo umano, produrre e comprare in modo diverso.
Una torva di cani sciolti iniziò a correre in tutte le direzioni possibili, agendo in modo assolutamente non coordinato ma rispondendo a esigenze reali e diffuse in tutto il popolo dei progressisti. Nel giro di pochi anni costruimmo centinaia di ristoranti, bar, teatri, palestre, negozi, aziende agricole, agriturismi, laboratori, scuole, gruppi di produzione culturale, officine, agenzie di servizio, andando a occupare ogni sorta di settore e ogni spazio libero. Nascono i quegli anni lo Slow Food, Ecor, Alce Nero, la rete del commercio equo e solidale, i primi gruppi di acquisto informali.
I gruppi politici ci guardavano con un misto di compatimento e disinteresse: da parecchi eravamo addirittura considerati radical chic e gente che voleva arricchirsi sfruttando la cultura alternativa.
Parlare di impresa, di bilanci aziendali e mutui bancari era disdicevole per i rivoluzionari duri e puri.

Mentre il movimento spariva dalle piazze e dalle cronache dei giornali, e lo yuppismo si beveva l’anima del paese, noi si costruiva in silenzio quello che oggi è il tessuto culturale ed economico del mondo progressista.
Questo discorso non lo sento mai fare dai leader…
Anche il termine mondo progressista non viene usato…
Sarebbe invece interessante mettere oggi al centro del dibattito politico proprio il concetto di mondo progressista.
Marx ci ha insegnato che è il modo di vivere che determina il modo di pensare e di agire delle persone.
Cosa sarebbe l’Italia se non esistesse questo enorme tessuto di realtà fisiche dove incontrarsi, acquistare prodotti buoni puliti e giusti, dove imparare, dove partecipare a eventi culturali, dove mangiare o andare in vacanza? Cosa sarebbe l’Italia senza il commercio equo e solidale, le aziende ecologiche e biologiche, i siti della controinformazione e della controcultura?
Sono queste realtà (che offrono possibilità alternative al centro commerciale e alla cultura televisiva) a generare coscienza, modi di vivere diversi. Diversi e migliori da tutti i punti di vista, per il corpo, la mente e le relazioni umane.
Ma per spiegare meglio questo concetto è meglio che io prosegua a raccontare la storia di quel che mi è successo.
Sugli ultimi numeri del Male, prima del tracollo economico, uscì la pubblicità dei corsi d’arte e benessere della Libera Università di Alcatraz.
Dopo molte discussioni con un nutrito gruppo di amici, una ventina, eravamo arrivati alla conclusione che la cosa migliore da fare era creare un centro culturale in mezzo alle colline. Ormai vivevo lì da due anni e insieme ad altri fuggitivi dalle sconfitte urbane sognavamo di costruire un grande regno dei sogni realizzati.
La rivolta del ’68 non si era mossa solo sul terreno dello scontro politico. Aveva cambiato le nostre vite, il nostro modo di pensare.
E gli scontri di piazza non erano stati la parte più cruenta della battaglia. Lo scontro era avvenuto ferocemente casa per casa, coppia per coppia.
Avevamo iniziato criticando il Sistema ma ben presto ci eravamo resi conto che gli schemi del potere che combattevamo si riproponevano tra di noi. Modi di ragionare semplicistici avevano permesso che nei gruppi politici si replicassero comportamenti autoritari, violenti, prevaricatori. E le donne per prime avevano iniziato a rifiutare la divisione dei ruoli: i maschi parlano alle folle, le donne spazzano i pavimenti e distribuiscono i volantini…
E poi questa critica aveva invaso il privato! Una cosa inaudita! Le compagne criticavano come parlavi e come facevi l’amore.
Fu uno tsunami! Risse a non finire. Scene senza sangue ma non meno mentalmente devastanti.
E poi arrivarono i gay a dirci che eravamo criptochecche.
E poi i disabili a dirci che esisteva la diversità fisica e la diversità dei diritti.
E poi si scoprì che c’erano comunisti che si occupavano di costruire asili alternativi, come quello di Malaguzzi, l’asilo Diana di Reggio Emilia nato nel 1945 ad opera di un gruppo di partigiani che deposte le armi vendette 2 carri armati tedeschi a un ferrivecchi per finanziare l’impresa.
Si riscopriva Lettera ad una professoressa di don Milani. E mentre mio padre riscriveva la storia dei giullari, altri passavano al setaccio tutto quello che la scuola insegnava. Dalla Svezia arrivò Il Libro di Storia realizzato da un gruppo di studenti e poi l’Origine della donna, della Morgan, e Il piacere è sacro della Eisler.
L’esperienza psichedelica (disastrosa dal punto di vista dello spaventoso numero di cervelli bruciati) e il diffondersi della New Age (altrettanto disastrosa per l’alto numero di anime bruciate) aprirono i confini della psicologia e della scienza, mentre Capra scriveva Il Tao della fisica e andava a ruba Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig.
Il ’68 fu l’inizio di 2 decenni di grande sperimentazione, a volte selvaggia, durante i quali una notevole parte dei progressisti si dedicò a buttare a mare vecchie idee e vecchi modi di vivere.
Ogni tanto sento qualche reduce come me della rivoluzione fallita che dice: abbiamo fatto tanto e non è cambiato niente!
Queste parole nascono dal fatto che il Movimento progressista, che chiameremo concreto, non è ancora riuscito a raccontare la rivoluzione che abbiamo fatto e vinto: quella sugli stili di vita e l’idea del mondo.
Quando nel 1979 abbandonai Roma e mi misi a collaborare a distanza con il Male (cosa complessa perché non esistevano ancora i fax a buon mercato) avevo in testa l’idea di qualche cosa di completamente diverso.
Il primo esperimento fu creare una comune anarchica, completamente senza regole, che accettava ogni tipo di emarginato, autosostentandosi economicamente con lavori di artigianato e un po’ di agricoltura biologica. L’esperienza durò per quasi un anno. Finì in rissa per i turni di lavaggio piatti.
Restato solo in una casa semidiroccata mi misi a discutere la possibilità di creare un centro culturale agricolo, una via di mezzo tra un laboratorio, una scuola e un centro benessere.
Avevo in testa i Monasteri medioevali dove persone che rifiutavano gli stili di vita correnti si riunivano lontano dalla civiltà dominante e organizzavano in modo indipendente cultura e economia.
Il centro dell’idea era che la rivoluzione era fallita per una questione di coscienze: la maggioranza delle persone non capivano che era possibile e giusto costruire pezzi di mondo progressista e viverci dentro e che il cambiamento del mondo iniziava da lì.
Avevamo bisogno di nuovi modi di conoscersi, collaborare, mangiare e camminare se volevamo sviluppare appieno la nostra umanità, potevamo ottenere diversi modi di vivere e lavorare trasformando in pratica e in studio il nostro desiderio di rivolta. 
Un anno prima di fondare la Libera Università di Alcatraz avevo scritto un libro che ebbe un discreto successo: Come fare il comunismo senza farsi male.
Teorizzavo il fatto che le Forze del Male e le Multinazionali del Dolore detengono il potere non più in virtù delle armi e delle industrie in loro possesso, ma grazie all’incredibile capacità di creare consenso per un sistema di vita e valori completamente delirante e sadico.
Nessuno ci impedisce con i fucili di comprare quel che più ci piace. Di merci ce n’è in sovrabbondanza e quel che determina il successo di un prodotto è il consenso dei consumatori.
Se domani i consumatori decidessero che non vogliono più i prodotti realizzati da operai sottopagati nessuna azienda potrebbe più permettersi di dare stipendi da fame.
Un concetto elementare del quale già allora si avevano prove di potenza. In California si era svolto il primo sciopero massiccio del consumo degli spinaci in sostegno dei braccianti messicani. Grandi latifondisti e grossisti erano crollati quasi subito accordando aumenti sostanziosi ai lavoratori.
A me pareva un’esperienza illuminante che avrebbe dovuto essere presa a esempio dai consumatori progressisti di tutto il mondo.
Ma tutti i grandi gruppi politici e le grandi associazioni progressiste guardavano da un’altra parte.
Qualche cosa però iniziava a muoversi: i primi negozi del commercio equo e solidale iniziarono ad aprire. La centrale era a Bolzano e si doveva andare fino a là per comprare i loro prodotti.
Alcatraz fu uno dei primi punti vendita solidali… Il caffè equo faceva un po’ schifo ma lo bevevamo con spirito di abnegazione (oggi però il caffè equo è il migliore sul mercato).
Nel 1982 iniziammo a ospitare centinaia di allievi che venivano a seguire i corsi ad Alcatraz.
Fin dall’inizio sviluppammo un approccio olistico (globale): non poteva esserci un confine tra la crescita umana e quella professionale, la qualità del cibo e quella del tramonto, il verde dei boschi e la ricerca storica, l’arte e il senso del comico, il rispetto delle diversità e la cura per i bambini, l’ecologia e il parto dolce. Era un tutt’uno, era la nostra vita, il nostro modo di parlare e di far l’amore.
Questo approccio lasciò molti compagni disorientati: sembravamo pazzi. Cosa c’entra il comunismo con un ristorante biologico? Perché parlare di risparmio energetico e di yoga insieme? Perché volevamo sviluppare le potenzialità umane per costruire una maggiore giustizia sociale? Come poteva il rispetto per i boschi andare di pari passo con il rispetto per gli omosessuali e la ricerca di sistemi di finanza etica, impresa ecologica e didattica comica.
Che c’entrava l’ippoterapia per disabili con la pace nel mondo?
Per trent’anni abbiamo lavorato in questa direzione, convinti che proprio questa interdisciplinarietà fosse una chiave essenziale del nostro lavoro. Per fare un buon attore è necessario un palato sopraffino, ascolto di sé, generosità verso l’amore e l’amicizia, capacità cooperativa e sentimenti ribelli. Poi bisogna anche saper recitare.
Alcatraz aderì all’Arci nella quale era in corso un curioso processo di cambiamento. Ci mettemmo a collaborare in particolare con il gruppo che stava realizzando un enorme catalogo di prodotti a prezzi scontati per il milione e passa di soci. Un’operazione colossale che prese un anno di lavoro. Si trattava sostanzialmente di qualche cosa di simile a un gruppo di acquisto aperto, basato su una carta sconti. Le possibilità che un simile strumento aprivano per l’economia alternativa e i prodotti di qualità erano enormi.
Questo catalogo venne stampato e distribuito a tutti i soci Arci.
E io assaporavo già sviluppi strepitosi.
Poi ci rendemmo conto che l’esistenza stessa di questo progetto era per la dirigenza nazionale dell’Arci una strana anomalia, che veniva a stento tollerata. Era una cosa da fuori di testa. Fu uccisa in modo elementare quanto brutale. Furono stampate 1 milione e duecentomila copie del catalogo e a gestire i rapporti con i soci e centinaia di fornitori furono lasciate solo 2 persone. Tutto naufragò miseramente nel caos…
Contemporaneamente tutti gli accordi di lavoro con l’Arci, che si era impegnata a organizzare decine di corsi e eventi ad Alcatraz, si vaporizzarono e noi rasentammo il tracollo economico e dovemmo reinventarci tutto da capo facendo la conoscenza con le difficoltà quotidiane per far quadrare i conti e contemporaneamente offrire corsi gratis per chi non aveva soldi.
Due cose che in matematica non vanno d’accordo.

Seconda e ultima parte la domenica prossima. Buoni sogni a tutti!
Jacopo Fo