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L’incredibile storia sconosciuta degli indios del Chapas e del Subcomandante Marcos

Lunedì sono venuti a Alcatraz Enrico e Finaz della Bandabardò per vedere un po’ se riuscivamo a tirar fuori qualche idea per uno spettacolo da fare assieme (nota).
Nota 1: È un fenomeno nuovo che sta arricchendo Alcatraz. Stefano Benni ha realizzato uno spettacolo con Mesolella, Dario ha ricantato e registrato le sue canzoni degli anni ’60 insieme a una decina di gruppi. Poi con Petrini di Sloow Food hanno fatto una 3 giorni sulla cultura del cibo.
E, per inciso, dobbiamo dare grande merito per questa rivoluzione creativa a Imad Zebala, grande percussionista e amante della collaborazione, che ha tessuto un’impareggiabile rete di amicizie, convincendo tutti che era indispensabile creare sinergie tra musicisti, attori, e scriteriati in genere.
Ne sono uscite parecchie: la rappresentazione inizia nell’età della pietra, con una delle prime canzoni della storia umana, cioè la famosa hit: “Cazzo se avessi un coltellino svizzero”.
Ma tra una canzone demenziale e l’altra ci siamo trovati a parlare del Chapas. I Bandabardò sono andati a fare un viaggio tra gli zapatisti, per consegnare a loro direttamente i denari raccolti con gli spettacoli. E mi hanno raccontato cose da pazzi su quella gente. Praticamente abbiamo l’ossatura per realizzare un documentario sulla rivoluzione anomala dei Maya.
Della rivoluzione zapatista è arrivata in Occidente perlopiù la griffe del Subcomandante Marcos, con la pipa e il passamontagna, la stella rossa e le brigate di indios, vestiti di blu carta da zucchero, che marciano in quadrato con i fucili in spalla.
Quello che hanno visto Enrico e Finaz è qualche cosa di completamente diverso.
E già questo è affascinante, dopo aver letto tanti resoconti e inchieste sul Chapas, scopro che c’è tutta un’altra storia che non è stata vista…
Come è possibile?
Questo è l’aspetto forse più interessante: quel che stanno facendo questi ribelli è talmente diverso, alieno, rispetto ai nostri modelli mentali che i giornalisti, pur avendolo davanti, spesso non lo vedono.

Come al solito la storia inizia da lontano.
C’erano una volta i Maya, che costituirono un grande impero.
Poi successe un fatto strano.
Gli storici accademici raccontano che improvvisamente, un paio di secoli prima dell’arrivo degli spagnoli, la società Maya collassò, le grandi città, con centinaia di migliaia di abitanti, furono abbandonate, le statue dei re e degli Dei furono sfigurate.
Forse una sommossa popolare…
Gli indios del Chapas, che da quei Maya discendono, raccontano che ci fu grande cambiamento perché la gente aveva capito che il sistema delle grandi città era sbagliato. Non fu una rivoluzione, semplicemente decisero che volevano cambiare modo di vivere. Che non volevano più fare i conti con i problemi delle grandi concentrazioni di esseri umani, con la gestione di un potere enorme, eserciti, funzionari, caste sacerdotali.
Si disperdono e per due secoli vivono una tranquilla mutazione.
Una società non provvista di un potere centrale ma non per questo disorganizzata. Essi riescono a mantenere vivi e operativi i contatti tra tutte le tribù, intessendo commerci, cooperazione, sistemi solidali.
Ad esempio, riescono a impedire che altri invadano il loro territorio. Una parte di coloro che vivevano nell’area di Chamula, riesce a resistere efficacemente anche alla penetrazione spagnola.
Dicono che internet l’anno inventato i Maya, correndo di villaggio in villaggio.
Comunque, l’elemento essenziale di questa storia passata è l’idea che i Maya abbiano saputo vedere dove sbagliavano e cambiare.
L’altro elemento culturale importante è che per l’etnia Maya che vive nel Chapas, i Tzotzil, è essenziale la relazione con la magia del mondo.
Quando i Bandabardò dovevano pagare per il loro soggiorno in una scuola zapatista pensarono bene di contribuire alla lotta con più soldi di quelli richiesti.
Ma ricevettero un netto rifiuto. Non si poteva, era stata fissato un prezzo che era giusto. Non andava bene modificare il prezzo.
E quando i Bandabardò hanno visto la loro fabbrica di scarpe hanno detto: ma sono bellissime! Se le portiamo in Italia ne vendiamo centinaia nei nostri concerti: l’anfibio zapatista con il marchio del Fronte Zapatista andrà a ruba!
Hanno risposto che non potevano, perché quello era un lavoro che facevano solo in certi momenti. E non potevano prendere impegni per le consegne, se poi erano in ritardo, gli italiani ci sarebbero restati male!
Hanno la mania dell’azione perfetta. Forse pensano che un gesto riesce a ottenere di propagarsi solo quando ha dentro una musica esatta, ed è sempre questione di centesimi.
Quando gli zapatisti decisero di andare a Città del Messico a trattare con gli ambasciatori del governo, arrivarono esattamente in 1.111, millecentoundici, né uno di più, né uno di meno. Perché 1.111 è un numero sacro, è un bel numero.
Ma per capire come pensano, come sognano questi indomabili bisogna sapere cosa è successo il giorno della rivoluzione.
Si preparavano da tempo, anni. Avevano discusso villaggio per villaggio, fino a quando tutti erano d’accordo. Assemblee interminabili. Poi avevano iniziato a cucire le divise blu carta da zucchero, a studiare il piano per l’insurrezione.
Decisero che avrebbero attaccato il primo gennaio, il giorno dopo fine anno, quando tutti i soldati e i poliziotti sarebbero stati ubriachi.
Non avevano armi e preferivano disarmare i federali quando erano incapaci di intendere e di volere.
La notte del 31 dicembre le squadre dei soldati di ogni villaggio iniziarono a confluire verso i punti di incontro per calare tutti insieme sulle caserme e sulle centrali di polizia.
Ma uno squadrone non si presentò all’appello e allora decisero di rimandare tutto di un anno.
O le cose si fanno bene o non si fanno.
Dopo un anno, durante il quale nessuno ha fatto trapelare una sola parola sull’insurrezione, attaccano le caserme, sorprendono la truppa ubriaca, si impossessano delle armi e dichiarano il controllo su tutto il loro territorio.
In tutta la guerra ci furono un totale di 12 morti e dopo 7 giorni di conflitto gli zapatisti dichiararono la pace e si ritirarono sulle montagne.
È l’unica rivoluzione armata a scadenza rapida che si sia mai vista.
Odiano la guerra. E molti tra gli zapatisti oggi sono convinti che anche quella sia stata un errore, perché non sono riusciti a far capire al resto del mondo cosa stavano realizzando.
Un aspetto veramente strano di tutta la storia è proprio quest’attenzione alla comunicazione. Essi sono perfettamente convinti che non potrebbero comunicare con i sistemi convenzionali.
Così hanno creato delle scuole zapatiste per gli stranieri in visita. Come te l’aspetti una scuola messa su da un esercito guerrigliero?
Una palla ideologica bestiale, peggio della Corazzata Potionkin?
Invece no, è un mix tra le nuove terapie psicologiche veloci e una seduta di teatro dell’archetipo.
La cosa centrale che gli zapatisti vogliono comunicare è che i Tzotzil mettono al centro della loro vita l’essere parte di una comunità. Non si pensano come individui ma come collettività. Hanno coperto i muri dei loro villaggi con frasi tipo: niente per me, tutto per noi.
I Bandabardò sono arrivati alla scuola zapatista con un gruppo di studenti e professori statunitensi. Gli zapatisti li hanno divisi a coppie, un americano e un italiano. Ognuno doveva raccontare chi era all’altro. Poi si sono riuniti in assemblea perché tutti sapessero qualche cosa dei partecipanti al corso. Ma invece di raccontare ognuno la propria storia l’italiano raccontava chi era l’americano con il quale aveva fatto coppia e viceversa. E non raccontavi la storia dell’altro dicendo: “Lui è uno studente di New York.” Dovevi dire “Io sono uno studente di New York.” Far finta di essere l’altro. Esercitarti a pensare di non essere te stesso.
Metterti nei panni di un altro è il primo passo per comprendere l’idea di comunità.
Un’altra esperienza proposta era andare ad ascoltare l’oracolo delle montagne.
Marcia a piedi, si arriva sopra un altopiano grandioso e si guarda il panorama, si lasciano correre i pensieri e si cerca l’ispirazione, un’idea, facendo finta che siano le montagne a dirtela attraverso il vento. In pratica lasci libera la fantasia di correre trovando così punti di vista differenti (la fantasia è magica).
E già questo per un gruppo di rivoluzionari militanti è un po’ anomalo.
Ma c’è di più. L’ispirazione dalle montagne non la cerchi su un problema tuo.
I partecipanti a questo rito, o come lo volete chiamare, sono molti e hanno le provenienze più disparate. Vengono suddivisi in gruppi per categorie: i professori americani, i contadini, gli studenti, le prostitute. E ogni gruppo deve cercare ispirazione collettiva mettendo insieme le immagini e i pensieri che ti son venuti in mente mentre assaporavi la magnificenza del mondo.
Sempre per il discorso di sentirsi un essere collettivo.
Ma non è finita qui. Infatti, nella formazione dei gruppi si seguono criteri in parte casuali. Quindi, nel gruppo delle prostitute può finirci dentro un professore di New York. Il suo compito in quel gruppo non è fare il professore ma sentirsi fino in fondo una prostituta. E quando il gruppo dovrà raccontare agli altri cosa è nato dall’incontro con la montagna, può capitare che sia proprio il professore a parlare, e parlerà dicendo di essere una prostituta, riferendosi a sé al femminile e raccontando della sua dura esperienza sulla strada e nei bordelli, e i suoi sogni di donna che vuol essere libera e felice.
Cioè, il delirio!
Io trovo queste idee fantastiche.
Mi fanno sognare modi diversi di far lavorare il cervello.

Questo modo di pensare porta poi gli zapatisti a comportamenti che vanno al di là del nostro modo di vedere il mondo.
Un giorno un gruppo di criminali pagati da chi ha interesse a distruggere la resistenza del Chapas, arriva in un villaggio mentre gli uomini sono nei campi a lavorare, e ammazza i vecchi, le donne e i bambini. Una strage.
Durante il funerale gli zapatisti catturano due degli assassini.
I padri delle bambine uccise li circondano.
Ma non li uccidono.
Li consegnano alla polizia senza torcere loro un capello.
E dicono ai poliziotti: “Lo sappiamo che ora voi li libererete perché sono i vostri capi che li hanno pagati per uccidere i nostri figli, le nostre mogli e i nostri genitori. Ma noi ve li consegnamo perché è giusto che sia così.”
Loro sono veramente convinti che la violenza è inutile e terribile perché genera solo altra violenza.
Possono scegliere di combattere con le armi in mano ma solo se c’è uno scopo diverso dalla vendetta. Perché comunque uccidere è male.
Una cosa del genere l’ha fatta solo Mandela in Sudafrica, coi Tribunali del Perdono, un’altra storia incredibile che pochi conoscono proprio perché fa a pugni con la nostra etica della vendetta (clicca qui).
E non a caso il concetto di collettività essenziale nella cultura Tzotzil è analogo per molti versi all’idea di Ubuntu, il principio morale fondamentale per i neri sudafricani.

Ma non è finita.
A un certo punto durante questo corso di cultura zapatista, un indio chiede: “Quante sono le direzioni che può prendere il mio movimento?”
E tutti rispondono concordi che sono 6: sopra e sotto, davanti e indietro, destra e sinistra.
E lo zapatista dice: “Dimenticate quella più importante, la direzione del sogno. Se non segui il tuo sogno ti perdi.”
Ma saranno pazzeschi o no?
Gente… Per favore mandateci un migliaio di zapatisti che qui ci serve un po’ di aria fresca nel cervello!

Ps
Se riferendo il racconto ho fatto qualche confusione la colpa è mia, sicuramente, non di Enrico e Finaz.