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Italiani depressi e neri coraggiosi

di Jacopo Fo

In questo periodo in Italia domina lo sconforto e la paura e sento molti dire: “Siamo senza speranze!”. Credo allora che sia utile raccontare la storia di chi vivendo una situazione disperata e inumana ha avuto il coraggio di tentare l’impossibile per conquistare il diritto ad una vita degna.
Eccoti quindi la storia vera di una delle più spettacolari fughe di schiavi negli Stati Uniti. Un viaggio impossibile verso la libertà. Questo testo è la fedele trascrizione del loro racconto.

Il mio nome è Ellen Smith. Ma in realtà neppure questo nome è veramente mio. L’uomo bianco che aveva in proprietà mia madre si chiamava Smith e mi impose il suo cognome.
Sono figlia del Maggiore Smith che violentò mia madre. Poteva farlo perché mia madre era una schiava e anch’io nacqui nella condizione di schiava.
Mia madre, Maria, era figlia del padrone che violentò mia nonna.
Così mia madre nacque mulatta, perché figlia di una nera e di un bianco. E io, figlia di una mulatta e di un bianco sono nata con la pelle bianca, più chiara addirittura di quella di molte donne di origine inglese. Ero bianca come le figlie che Smith aveva generato con sua bianca moglie.
Il Maggiore James Smith era biondo, basso e corpulento ed era proprietario di piantagioni di cotone, a Clinton, in Georgia. Ogni giorno alle 5 prendeva il the sul patio della sua grande casa di legno dipinta di bianco. Per lui lavoravano 60 schiavi.
Mia madre serviva come cameriera nella sua casa.
Un giorno la moglie del Maggiore Smith non ne poté più di vedermi girare per la piantagione con la mia pelle bianca anche perché gli ospiti mi scambiavano per una sua figlia.
Così nel 1837, quando avevo 11 anni, la signora Smith mi diede come regalo di nozze alla sua figlia più grande, Eliza Cromwell Smith.
Così dovetti dire addio a mia madre e a mia sorella, che era più piccola di me e fui portata a vivere a Macon.
Ma non avevo modo di ribellarmi. Per legge i bianchi potevano infliggere violenze moderate ai loro schiavi. Se poi durante queste moderate violenze lo schiavo moriva questo era considerato uno spiacevole infortunio, senza conseguenze.
E i padroni erano veramente abili nell’inventare moderate percosse che facessero provare agli schiavi dolori atroci senza che ne morissero.
Quindi affrontai la mia vita di schiava sottomettendomi a tutti gli ordini che mi dava la mia padrona. Ed evidentemente diventai una brava cameriera personale, tanto che lei mi diede una piccola stanza dentro la sua grande casa con il patio ornato da alte colonne di legno intagliato, dipinte di bianco.
Una piccola stanza nel sottotetto, ma era un grande lusso riservato a ben poche schiave.
Avevo 18 anni quando conobbi un giovane schiavo nero, di due anni più grande di me, era alto, la sua pelle era nerissima e portava la barba, cosa rara tra gli schiavi. Era di proprietà del cassiere di una banca, il signor Collins, che lo aveva affittato a un falegname, come apprendista. Si chiamava William Craft.
Mi innamorai di lui. E dopo 2 anni ci sposammo.
Ma agli schiavi non era concesso contrarre un vero matrimonio di fronte a Dio. Il vincolo dell’indissolubilità del matrimonio non valeva per chi non possedeva la propria persona. I padroni potevano vendere uno schiavo quando volevano e noi per di più appartenevamo a due diversi padroni, quindi non potevamo vivere assieme. A volte ci incontravamo di notte, io uscivo dalla villa della mia padrona e lo incontravo nel prato, dietro una siepe di rose rosse e bianche. A volte sento ancora il profumo di quelle rose.
Il nostro fu un matrimonio da schiavi, senza prete e senza un libro dove registrarlo.
Tra gli schiavi si usava così. Ci si sposava con una festa tra neri. Fu una bella festa. Una domenica. Fu un vecchio nero con i capelli bianchi e un occhio solo a sposarci. Era uno nero che tutti gli schiavi rispettavano. Arrivarono molte persone, ognuno portò un po’ di cibo e si mangiò seduti sopra un prato. Per fortuna quel giorno c’era il sole. Poi alcuni uomini iniziarono a suonare e le coppie si misero a ballare.
Ma io ero terrorizzata all’idea di avere dei figli che potevano essere in qualunque momento venduti dalla mia padrona. Dei figli che non avrei potuto veder crescere. E anche William condivideva questa paura, aveva visto sua sorella, ancora piccola, strappata alla madre e poi lui stesso era stato venduto e portato lontano da lei.
Così iniziammo a fantasticare sulla possibilità di fuggire. Ma era un’idea che faceva paura solo pensarla.
Quando uno schiavo fuggiva tutti i bianchi si mobilitavano per dargli la caccia.
E c’erano cacciatori di schiavi professionisti che avevano cavalli veloci e cani capaci di seguire una traccia per giorni.
E intorno a noi, per mille chilometri, in ogni direzione, c’erano migliaia di schiavisti pronti a fermare qualunque nero viaggiasse da solo e interrogarlo e portarlo in prigione se avevano anche solo il lontano sospetto che fosse uno schiavo fuggitivo. Nessuno poteva viaggiare senza avere con sé il permesso scritto dal suo padrone. E noi non sapevamo neppure scrivere e non avevamo modo di procurarci un lasciapassare falso. E nessun negozio ci avrebbe venduto cibo senza chiedere che mostrassimo i nostri documenti di viaggio
Quando la notte, dopo 15 ore di lavoro, potevamo incontrarci parlavamo della nostra fuga.
E ascoltavamo le storie degli schiavi che avevano tentato senza riuscirci e avevano pagato caro il loro folle tentativo.
Come potevamo riuscire a conquistare la nostra libertà? Fuggire a piedi era impossibile. Anche se fossimo scappati di notte e la nostra fuga fosse stata scoperta all’alba quanti chilometri potevamo percorrere? Rubare due cavalli? Non sapevamo stare in sella. E poi dove potevamo fuggire? Sapevamo che c’erano stati al nord dove la schiavitù non era ammessa. Ma i cacciatori di schiavi potevano raggiungerci anche là. Per essere in salvo dovevamo arrivare in Canada.
Non riuscivamo a trovare un’idea su come fuggire ma continuavamo a sognare e decidemmo che comunque per scappare avevamo bisogno di denaro. Così iniziammo a risparmiare ogni piccola mancia che ogni tanto i padroni ci davano. Io ero brava a cucire e di notte iniziai a confezionare vestiti che rivendevo ad altre schiave e a un negozio, e William si mise a lavorare di notte costruendo piccoli mobili. Era vietato comprare qualche cosa da uno schiavo che non avesse il permesso scritto del suo padrone per vendere. Ma se proponevi prezzi veramente bassi trovavi qualche bianco disposto a far finta di niente.

Una notte, nell’estate del 1847, ci eravamo assopiti sul prato di fronte alla villa dei miei padroni, nascosti dalla siepe di rose bianche e rosse.
William si svegliò di soprassalto e si mise seduto. Il suo movimento mi riportò alla coscienza, socchiusi gli occhi e lo guardai: “Che succede?”
“Ho fatto un sogno, io e te viaggiavamo sopra il treno che porta a Savannah, tu eri vestita come una signora bianca e io ero il tuo schiavo. Ecco come potremo fuggire!”
Restai un poco pensierosa. Poi dissi: “Non può funzionare. Nessuna donna bianca viaggerebbe mai con uno schiavo nero, senza la compagnia di un uomo bianco.”
William smise di sorridere. Sapeva che avevo ragione. Restò in silenzio. Dopo un poco mi disse: “E se tu fossi vestita da uomo?”
L’idea era folle, ma ci vidi una speranza. Nessuno avrebbe pensato che un bianco e il suo schiavo nero fossero in realtà un uomo e una donna fuggitivi.
Poi lui increspò la fronte nello sforzo di pensare: “Ma come potremmo fare perché il tuo viso sembri quello di un uomo?”

Scartammo l’idea di incollare i peli della barba di William sul mio viso. L’idea ci fece ridere ma non era attuabile: viaggiando seduti vicini ad altri viaggiatori il trucco sarebbe stato visibile. Dovevamo escogitare qualche cosa d’altro.
Poi fummo sopraffatti da tutte le difficoltà che avremmo incontrato e che parevano insormontabili: non sapevamo nulla della strada che avremmo dovuto percorrere per arrivare al nord. Una volta arrivati a Savannah forse saremmo potuti salire su un piroscafo… Ma quanto sarebbe costato il biglietto? Quanti giorni sarebbe durato il viaggio? Quanto avremmo speso per mangiare? Sarebbe stato necessario fermarsi in un albergo per dormire? Come potevamo procurarci gli abiti adatti ad un padrone bianco?

Nei giorni successivi, con molta cautela, iniziammo a raccogliere informazioni.
Nella bottega dove William lavorava arrivavano a volte dei viaggiatori, e al mercato di Macon si incontravano schiavi che attendevano i loro padroni vicino all’albergo, girando tra i banchi della frutta, seduti sotto il portico o sdraiati a riposare sul fieno di una stalla insieme ai cavalli. William chiedeva loro da dove venissero e cercava di portare la conversazione sul percorso che avevano fatto, sul costo dei biglietti, sulle locande dove dormire.
A nord di Savannah c’era la grande città di Charleston, per arrivarci dovevamo prendere una nave…. Da lì bisognava prendere un’altra nave per Philadelphia, nel Jersj e lì finalmente saremmo stati fuori dal territorio schiavista, ma il nostro viaggio doveva poi continuare. La strada per arrivare in Canada era ancora lunga ma non avevamo trovato informazioni sul percorso che avremmo dovuto prendere da lì in avanti…

Poi un giorno trovammo la soluzione per nascondere il mio viso femminile.
Avrei finto di essere un bianco molto malato. Avrei cosparso il mio mento e il labbro superiore con un impiastro medicamentoso coperto da una fasciatura.
E per rendere ancora migliore il camuffamento decidemmo di procurarci un paio di occhiali. William riuscì a comprarne un paio con le lenti verdi.
Poi una schiava che avevo incontrato in un emporio di Macon, frequentato dai neri, mi raccontò il suo viaggio da Washington a Macon, insieme ai suoi padroni, che avevano dormito in un albergo. Riuscii a farmi descrivere l’albergo e con rammarico scoprii che era usanza firmare un registro per essere ospitati. E io non sapevo scrivere. Era vietato qualsiasi insegnamento per gli schiavi. La punizione per chi imparava era la frusta e i bianchi scoperti a insegnare dovevano pagare una multa di 250 dollari.
Ma anche per questo problema trovammo la soluzione: visto che ero un bianco molto malato avrei avuto anche il braccio e la mano destra avvolti in bende e medicamenti.

Dovemmo lavorare sodo per mesi per ottenere dai nostri padroni il permesso di assentarci per due giorni per fare visita a mia madre, poco prima di Natale. Così avremmo avuto un po’ di tempo prima che la nostra fuga venisse scoperte e iniziassero a darci la caccia. Ma non avevamo idea di quanti giorni avrebbe impiegato l’allarme a diffondersi e quanto lontano sarebbe arrivato.
Avevamo racimolato 107 dollari, una cifra enorme per due schiavi. Avevamo nascosto i miei vestiti da uomo nella mia stanza, dentro un comò che William aveva costruito per me, avevamo comprato un barattolo di Opodeldoc, un intruglio estremamente puzzolente fatto con sapone, alcool, acqua, canfora, artemisia e rosmarino. Avevamo gli occhiali con le lenti verdi… eravamo pronti a gettarsi in quella folle avventura!

Il 21 dicembre 1848, prima dell’alba, uscivamo dalla mia stanza, io già vestita da uomo bianco malato. La grande casa era ancora immersa nel sonno. Quando arrivammo alla porta che dava sul retro io fui colta da un’ondata di terrore e scoppiai sommessamente a piangere. Nella mia testa correva l’orrore di quel che avremmo dovuto subire se ci avessero presi. William mi abbracciò e mi tenne contro il suo corpo. Dopo poco mi ripresi e dissi: “Andiamo!”

Impiegammo più di un’ora a raggiungere a piedi la stazione di Macon. Avevo il sangue che mi batteva in testa mentre compravamo i biglietti per il treno.
Salimmo accomodandoci in uno degli scompartimenti del quarto vagone.
Attendevamo con ansia il momento della partenza. Per raggiungere savannah avremmo percorso più di 200 chilometri, quasi 8 ore di viaggio.
Essere arrivati su quel treno ci sembrava già un miracolo.
Poi mi si gelò il sangue quando vidi che sulla banchina c’era il falegname per il quale William lavorava. Anche lui lo vide. Il falegname avanzava lentamente guardando dentro ogni scompartimento del treno, come se cercasse qualcuno. Cosa era successo? Possibile che la nostra fuga fosse già stata scoperta? William si schiacciò contro la parete della carrozza. Ora il falegname era a due scompartimenti dal nostro, pochi metri e avrebbe guardato noi. Il mio cuore non batteva più. Poi sentimmo il fischio della locomotiva  e il treno partì.
Poco dopo un bianco si sedette di fronte a me. Ero ancora scossa per il passato pericolo ma mi resi conto che un'altra minaccia era incombente. Riconobbi l’uomo, era il signor Cray, un amico di famiglia degli Smith che mi conosceva fin dall’infanzia; due sere prima aveva cenato con i miei padroni alla villa, e io lo avevo servito. Mi avrebbe riconosciuto?
Poco dopo la partenza il signor Cray si rivolse a me dicendo: “È una splendida mattina!” Avevo paura che se avessi parlato lui avrebbe riconosciuto la mia voce. Feci finta di non sentire e continuai a guardare fuori dal finestrino.
Il signor Cray ripeté la domanda e allora io decisi di fingermi sorda e di non poter parlare a causa della fasciatura. Mi girai verso di lui e indicai il mio orecchio con l’indice della mano sinistra, scuotendo la testa. William capì al volo le mie intenzioni e parlò per me: “Il mio signor padrone è sordo, signore.”
Anche questo sotterfugio sembrò funzionare perché il signor Cray rinunciò a fare conversazione con me. Sentii alcuni altri viaggiatori commentare che era una grande menomezione essere sordi.
Il viaggio fino a Savannah continuò senza altre difficoltà. I bianchi parlarono animatamente dei soliti argomenti: negri, cotone e abolizionisti.

Arrivammo ​​a Savannah all’imbrunire.
Una grande carrozza collettiva, tirata da 4 cavalli, una corriera, ci portò insieme ad altri viaggiatori fino ad una locanda dove tutti scesero per mangiare qualche cosa. Io restai sulla corriera per evitare rischi e William andò a prendermi un vassoio con una tazza di the e una fetta di torta di mele. Dopo un’ora la corriera ripartì e di lì a poco arrivammo al porto dove comprammo i biglietti e salimmo sul vaporetto diretto a Charleston, South Carolina.
Quando salimmo a bordo notai che il capitano dell’imbarcazione e gli altri passeggeri mi guardavano con sospetto. Mi ritirai subito nella mia cuccetta, William prese le bende e l’Opodeldoc e andò nella sala dove c’era una stufa per riscaldare le fasce cosparse di  unguento. Così ebbe modo di spiegare ai passeggeri che lo interrogavano che ero molto malato e che stavamo andando a Philadephia nella speranza di trovare una cura per i miei reumatismi. La puzza dell’Opodeldoc sembrò convincere i signori bianchi che ero veramente molto malato. Mentre William scaldava l’unguento in un pentolino uno dei passeggeri disse: "Che cos'hai lì?". Lui rispose: "Opodeldoc, signore»
Un uomo con una grande pancia commentò: "Questa puzza è sufficiente per uccidere venti uomini!”.
William mi portò le bende intrise di Opodeldoc e poi andò a dormire sul ponte della nave, con gli altri schiavi. Per fortuna la notte era calda.
La mattina dopo uscii dalla mia cuccetta per andare a fare colazione assistita dal mio schiavo. Il capitano della nave si informò gentilmente sulla mia salute. Ebbi l’impressione che a causa della mia infermità provasse pena per me.
Mentre mangiavo William andò sul ponte. Il capitano allora mi disse: "Signore, lei ha un ragazzo molto attento; ma faccia attenzione quando arriverà al nord. Ora si comporta bene ma tutto potrebbe cambiare quando sarete in mezzo agli abolizionisti. Ho conosciuto persone che hanno perso i loro schiavi appena sono arrivati”.
Prima che potessi rispondere un bianco con un panciotto ricamato con colori vivaci, il mento ispido, gli occhi iniettati di sangue e la bocca piena di pollo è intervenuto consigliandomi di vendere subito il mio schiavo. Me lo avrebbe comprato lui in cambio di buoni dollari d’argento.
Cercando di parlare con la voce molto bassa e profonda risposi: "Non voglio venderlo, signore, è uno schiavo fedele e non posso andare avanti senza di lui."

Allorché quello esclamò: "Mi fa sempre impazzire sentire un uomo parlare di fedeltà dei negri. Non ce n’è uno che non talgierebbe la corda se ne avesse la possibilità!”
Un ufficiale dell’esercito, che viaggiava anch’esso con uno schiavo mi disse: «Mi scusi, signore, credo che lei rischi di rovinare il suo ragazzo. Ho sentito che gli ha detto grazie. Vi assicuro , signore, niente rovina uno schiavo così presto come dirgli grazie. L'unico modo per mantenerli al loro posto è farli tremare come foglie. Come ha visto quando parlo al mio scatta come un fulmine, e se non lo fa lo scortico a frustate".

Arrivammo il giorno dopo a Charleston, il molo era pieno di gente e scendemmo per ultimi dal vaporetto per paura di incontrare qualcuno che ci riconoscesse. Andammo all’ufficio del porto dove chiedemmo di comprare i biglietti per Philadelphia, ma scoprimmo che in inverno le navi passeggeri non facevano servizio. Comprammo allora due biglietti per Wilmington, North Carolina.
Il capo dell’ufficio chiese sospettoso chi fosse William. Lui rispose che era il mio schiavo. Dovevamo firmare il registro di viaggio e io dissi che avendo la mano dolorante non potevo scrivere: “Potrebbe registrarmi lei? Io mi chiamo William Johnson”. Ma il capo dell’ufficio portuale disse che lui non avrebbe scritto nulla per me, perché non mi conosceva. Alzò la voce dicendo che non potevamo imbarcarci se non avevamo documenti per me e il mio schiavo. Proprio in quel momento entrò nell’ufficio l’ufficiale che aveva viaggiato con noi. Era lievemente alticcio ma questo non gli impedì di capire subito la situazione e senza pensarci su disse: “Io conosco bene quest’uomo!” Il giovane capitano del piroscafo diretto a Wilmington sentendo che l’ufficiale dichiarava di conoscerci  disse: “Mi prendo io la responsabilità di firmare il registro”. Così ottenemmo il permesso di imbarcarci e io mi chiusi subito in cabina mentre William dormiva sul ponte.
Arrivammo a Wilmington il mattino successivo e lì prendemmo il treno per Richmond, Virginia.
Su quel treno c’era uno scompartimento riservato alle famiglie più agiate e agli invalidi e il capotreno mi fece accomodare lì, mentre William si dovette sistemare altrove. Nel mio scompartimento si sedettero anche un uomo molto ben vestito con un abito di flanella color cachi e le sue figlie che portavano ampi scialla di lana rosa. Mi interrogarono sulla mia malattia e sulla destinazione del mio viaggio e io dissi che soffrivo di reumatismi e che andavo a Philadelphia per curarmi. L’uomo parve preoccuparsi per il mio stato di salute, ni raccontò di conoscere bene la sofferenza che danno i reumatismi, mi consigliò un medico di sua conoscenza e mi regalò anche un piccolo libro, che presi ringraziandolo e poi misi subito nel panciotto senza aprirlo per il timore di sbagliarmi e guardarlo tenendolo al contrario. Poi mi offrirono da bere e da mangiare, e io accettai ringraziandoli. Vedendomi stanco le sorelle si tolsero gli scialli e ne fecero un cuscino. Mi invitarono a sdraiarmi ed ad usalo per stare più comodo appoggiandoci la testa. Lo feci e finsi di addormentarmi. Quando pensarono che dormissi una delle sorelle disse: “Povera me, in vita mia non mi sono mai sentita così emozionata vicino a un gentiluomo!” Dentro di me tirai un sospiro di sollievo, evidentemente il mio camuffamento funzionava se riuscivo a passare per un uomo tanto bene da far innamorare una ragazza!

Arrivati a Richmond abbiamo dovuto cambiare treno e abbiamo raggiunto la costa poco oltre Fredericksburg dove abbiamo preso il piroscafo per Washington e poi ancora il treno fino a Baltimora, ultima città in territorio schiavista.
Ma quando stavamo per arrivare alla stazione è entrato nel nostro scompartimento il capotreno che mi ha detto che per continuare il viaggio oltre Baltimora dovevo esibire i documenti che provassero che lo schiavo che era con me era effettivamente mio. Io dissi che non avevo con me l’atto di acquisto del mio schiavo perché non pensavo di averne bisogno per raggiungere Philadelphia. Così arrivati alla stazione fummo accompagnati nell’ufficio del capostazione il quale ribadì che se non avevo l’atto di proprietà del mio schiavo non potevo proseguire perché se lo schiavo non era mio il legittimo proprietario poteva richiedere alla ferrovia di essere risarcito perché si era concesso ad uno schiavo senza documenti di uscire dai territori schiavisti.
Io trovai il coraggio di rispondere con decisione che non potevano trattenermi. Ma intanto il terrore mi faceva tremare l’anima perché vedevo infrangersi il nostro sogno a un passo dal traguardo.
Nell’ufficio c’erano altri passeggeri che iniziarono a protestare dicendo che viste le mie pessime condizioni di salute il capostazione doveva lasciarmi proseguire il viaggio. La discussione andò avanti per alcuni minuti durante i quali non avevo il coraggio di guardare il viso di William per timore che la nostra disperazione trasparisse.
Poi il capostazione si mise le mani nei capelli dicendo agli altri passeggeri: “Non so proprio cosa fare! C’è un regolamento da rispettare!” Alla fine dopo altre insistenze da parte dei presenti accettò di lasciarci andare. Così salimmo sul treno per Philadefhia. Quando la campanella suonò annunciando la partenza, sospirai trattenendo le lacrime: forse ce l’avevamo fatta.
Erano le otto di sera. La mattina successiva arrivammo finalmente a Philadelphia. Era il girono di Natale e noi eravamo liberi!

Post scritto
Ellen e William Craft non andarono in Canada. Entrarono in contatto con i gruppi antischiavisti, di Philadelphia e parteciparono a incontri pubblici del movimento raccontando la storia della loro fuga. E si sposarono ufficialmente.
L’anno successivo venne approvata dal Senato degli Stati Uniti una legge infame che prevedeva che gli schiavi fuggiti negli stati non schiavisti venissero arrestati e riconsegnati ai loro proprietari.
I Craft fuggirono allora a Londra, dove, nonostante il forte razzismo diffuso, poterono vivere del loro lavoro, William faceva il falegname, Ellen la sarta. Ebbero 5 figli.
Scrissero un libro sulla loro fuga: “Correre mille miglia per la libertà”. Questo libro ebbe un certo successo ed essi parteciparono a molte manifestazioni abolizioniste e tennero conferenze in diverse città. Nel 1870, dopo l’abolizione della schiavitù, tornarono negli Stati Uniti; con il denaro raccolto grazie all’aiuto del movimento antischiavista comprarono un podere di 1800 acri, a Woodville, Georgia, dove fondarono una scuola per neri la Woodville Co-Operative Farm School. La scuola dovette chiudere però nel 1878 per mancanza di fondi. William si recò per 3 volte in Africa, nel Dahomey (oggi Benin) dove fondò una scuola e sostenne altre iniziative per lo sviluppo sociale ed economico. Cercò anche di convincere il re a vietare il commercio degli schiavi. Non ebbe successo. Ellen morì nel 1891 a 67 anni, William nel 1900 a 78 anni.