Recensioni libri e film

Facebook Instagram TikTok YouTube Twitter Jacopo fo english version blog

 

RESTIAMO IN CONTATTO!

PER CONOSCERE GLI ULTIMI AGGIORNAMENTI VISITA LA MIA PAGINA FACEBOOK

 

L'informazione indipendente e i film da non perdere

LIBRI: L'uomo che inventò Fidel, di Anthony DePalma

Pubblichiamo oggi l'introduzione del libro "L'uomo che invento' Fidel", di Anthony DePalma, ed. Nuovi Mondi Media.
In questo libro, affascinante, avvincente e ironico non si racconta solo la storia di Herbert L. Matthews, l'uomo che inconsapevolmente invento' Fidel Castro, vi e' un'intera epoca e tutta l'atmosfera di Cuba e della Guerra Fredda.
Buona lettura.
Il libro e' in vendita su www.commercioetico.it

L'uomo che inventò FidelL'uomo che invento' Fidel
Introduzione

Una vita intera trascorsa a cercare la verita' aveva insegnato a Herbert Lionel Matthews che nessuna bugia e' piu' potente del mito, nessuna verita' piu' fragile di quella che nessuno vuole sentire. Era stato il mito, ne era convinto, che aveva quasi rovinato i suoi quarantacinque anni di carriera come editorialista, giornalista e corrispondente: uno dei corrispondenti esteri piu' influenti e controversi del XX secolo. Erano state, a suo modo di vedere, le verita' scomode a fare della sua vita un inferno.
Ora, nell'inverno del 1967, in una villa piena di spifferi sulla riviera francese, rannicchiato per difendersi dalla brezza dicembrina e dai demoni del suo passato, Matthews era deciso a domare quei miti e a liberare quelle verita' fino ad allora respinte. Stava spulciando le cartelle che aveva portato con se' quando aveva lasciato il New York Times qualche mese prima; cercava delle prove in grado di dimostrare che aveva avuto sempre ragione. Poi un giorno s'imbatte' in un pezzetto di carta che aveva smarrito da tempo e di cui si era quasi dimenticato.
Matthews credeva di averlo perduto per sempre e invece eccolo qua, infilato in un polveroso album di fotografie di Cuba che non guardava da anni. Non riusciva a ricordare in quale occasione avesse visto quel pezzo di carta per l'ultima volta, mentre il ricordo della prima volta era cosi' vivido come se fosse ancora stampato nei suoi occhi castani un po' spenti. Di un'intera vita di ricordi straordinari, che abbracciavano decine di paesi in tutto il mondo, niente superava le tre ore trascorse nella selvaggia Sierra Maestra della parte sud-orientale di Cuba in compagnia di un giovane Fidel Castro che sussurrava nelle sue orecchie (ormai fiaccate dai racconti di guerra) le sue speranze e i suoi sogni per una Cuba che non si sarebbe mai avverata. Sapendo che in molti non gli avrebbero creduto, Matthews aveva chiesto a Castro di firmare gli appunti di quell'intervista. Con una stilografica blu, Castro aveva tracciato la sua firma con sicurezza e precisione, cominciando con una classica F maiuscola e finendo con un audace svolazzo, simile alla coda di un aquilone, che avrebbe potuto fruttargli una bacchettata sulle mani alle scuole cattoliche che aveva frequentato da ragazzo. Poi ci mise la data: 17 febbraio 1957.
Nei giorni idilliaci della guerra fredda, quando l'America ostentava la propria potenza militare in tutto il globo e gli americani, appagati, vivevano come se non dovessero preoccuparsi d'altro che delle rate dell'auto e dei comunisti, Matthews aveva percorso le montagne quasi impenetrabili di Cuba e ne era uscito con una sensazionale esclusiva mondiale per la prima pagina del New York Times: Fidel Castro, che molti avevano dato per morto mesi prima, era vivo e vegeto e destinato a portare a Cuba la rivoluzione.
La sua firma, strappata dagli appunti di Matthews, era stampata sotto una foto che ritraeva Castro mentre sbucava dalla foresta con un fucile con mirino telescopico e un'espressione di assoluta innocenza. L'intervista nel nascondiglio di Castro sulla Sierra rappresento' una svolta nella storia di Cuba e, da ultimo, degli Stati Uniti, perche' segno' l'inizio dell'ascesa al potere di Castro, facendo sia di lui che di Matthews degli eroi, almeno per un po'.
Poi, quando Castro abbraccio' il comunismo e l'entusiasmo degli americani per il giovane ribelle barbuto svani', quello storico incontro fini' per essere considerato un'impresa inutile, se non qualcosa di peggio. O Castro aveva manipolato un credulo Matthews, o Matthews, simpatizzando per lui, si era schierato dalla parte del ribelle. Per anni, dopo quel fuggevole incontro nella Sierra, Matthews aveva cercato di spiegare la sua versione della storia, ma quasi nessuno gli aveva creduto, neppure quelli dai quali si sarebbe aspettato la piena comprensione.
Quando Matthews se ne ando' dal Times, non ci fu nessuna festa di commiato, niente champagne, ne' discorsi alati o ipocrite pacche di congratulazioni sulle spalle. Rifiuto' tutto questo, dicendo ai colleghi che festeggiare il suo pensionamento sarebbe stato come andare al suo funerale. Un sentimento piuttosto comune, forse, ma nel caso di Matthews la situazione era piu' complicata, perche' era la sua reputazione a essere quasi morta, vittima di critiche feroci dall'esterno come dall'interno del giornale. Nella redazione gli erano rimasti pochi amici. Quando fu ora di andare, spense semplicemente la luce del suo ufficio al decimo piano della sede del giornale a Times Square e usci', passando in silenzio attraverso la porta girevole d'ottone nell'atrio senza guardarsi indietro.
Parti' alla volta dell'appartamento di un amico a Cap d'Antibes, sulla riviera francese. Negli anni '50, quando Matthews credeva di essere all'apice della carriera, Cap d'Antibes era considerato uno dei posti piu' seducenti della terra, una mecca per star del cinema e ricconi, che amavano starsene sdraiati sotto la sua dolce brezza e gli occhi ammirati degli altri. Ma ormai la vecchia localita' di villeggiatura non era piu' di moda, proprio come lui. Magro e penosamente fragile, con occhi imbronciati e sospettosi, trascorreva gran parte del tempo in casa, lontano dal sole fuori stagione, a scartabellare i voluminosi fascicoli che aveva portato con se' per scrivere una biografia di Castro, che sperava avrebbe messo in chiaro le cose su quest'ultimo e su se stesso.
Il pezzetto di carta con la firma di Castro era la chiave per capire come tutta la sua vita fosse stata stravolta. E non solo. Rappresentava la mutevolezza della verita' e la natura imperfetta del giornalismo. Quella firma era la prova che Matthews aveva visto Castro e aveva parlato con lui della rivoluzione. Quello almeno era un fatto certo, inconfutabile. Ma se il ritratto che Matthews aveva fatto di Castro si era rivelato sbagliato, cio' era dovuto a un suo errore di allora o al fatto che il carattere complesso di Castro aveva subito delle metamorfosi con il passare del tempo?
Chi era stato il vero Fidel Castro nel 1957: il giovane che aveva abbracciato la democrazia prima di firmare gli appunti di Matthews, o il demagogo comunista che inveiva da cinquant'anni contro l'imperialismo yankee?
Lui aveva fatto cio' che aveva sempre creduto dovesse fare un giornalista: essere presente dove e quando accadono fatti importanti. Si vantava di non aver mai riferito nulla della cui veridicita' non fosse stato convinto. Ma la verita' puo' fare male, e la paranoia da guerra fredda di quei giorni aveva distorto il concetto stesso di verita'. Gli anni '50 furono un periodo critico per il giornalismo. La televisione stava diventando piu' potente al tempo dello scontro di Edward R. Murrow con il senatore Joseph McCarthy per la sua disastrosa caccia alle streghe contro i comunisti. E i mezzi di comunicazione tradizionali iniziavano ad abbandonare le simpatie patriottiche dimostrate nel corso della Seconda Guerra Mondiale per adottare un atteggiamento di maggiore scetticismo nei confronti del governo. Matthews, che era diventato una superstar della carta stampata proprio nel momento in cui i giornali venivano oscurati dalla televisione, fini' per essere accusato di aver contribuito a portare i comunisti nell'emisfero occidentale. Fu tacciato di antiamericanismo. E, fatto ancor piu' grave, quando il suo stesso giornale penso' che era troppo coinvolto in quella vicenda, gli proibi' di lavorare all'argomento che conosceva meglio di qualunque altro giornalista del Nord America. Nonostante quel divieto, Matthews continuo' a riandare alla storia di Cuba. Era d'accordo con alcuni dei suoi pochi sostenitori, i quali facevano notare che biasimare lui per quanto era accaduto a Cuba non aveva molto piu' senso che incolpare un meteorologo della tempesta che aveva previsto. Eppure era proprio cio' che riteneva fosse accaduto, e questo accresceva la sua determinazione a sfatare i miti, guardare oltre le leggende e dire la verita'.

E dov'e', esattamente, che finisce il mito e comincia la verita'? Fu da questa domanda che partii molti anni fa, quando iniziai a occuparmi degli esordi di Castro come ribelle. Indagare sulla storia di Herbert Matthews divenne per me un'esplorazione della natura stessa della verita'.
All'inizio del 2001, un redattore del Times mi chiese di preparare un necrologio anticipato di Castro, un incarico che accettai volentieri, visti il mio interesse personale per l'America Latina, dove avevo lavorato come corrispondente estero per il Times, e l'attrazione che esercitava su di me Cuba, paese tanto problematico quanto affascinante nonche' luogo di nascita di mia moglie, Miriam, che vi aveva vissuto fino al periodo immediatamente successivo alla rivoluzione. Io, come la maggior parte dei giornalisti, ero venuto a conoscenza delle chiacchiere sul fiasco di Matthews molto tempo prima e sapevo che un necrologio di Castro sul Times avrebbe dovuto esporre nei dettagli quell'evento cosi' controverso. C'era pero' qualcosa che m'inquietava. La storia popolare voleva che Castro avesse fatto marciare i suoi uomini in cerchio intorno a Matthews per fargli credere di avere un esercito molto piu' grande e che su quel piccolo stratagemma Castro avesse costruito la sua rivoluzione. Non la bevevo. Avevo assistito a un simile tentativo di mistificazione nel 1994 nella giungla del Chiapas, in Messico. Un capo mascherato dei ribelli, che si faceva chiamare Subcomandante Marcos, stava organizzando uno show politico, che aveva definito Convenzione Nazionale Democratica, subito prima delle turbolente elezioni presidenziali di quell'anno. Migliaia di simpatizzanti di sinistra di tutto il mondo sedevano su rozze panche fatte con rami di alberi in un anfiteatro che gli indi seguaci di Marcos avevano scavato sul fianco di una montagna. A un certo punto dello spettacolo, Marcos cerco' di impressionare la folla ordinando ai suoi soldati di marciare davanti al palcoscenico. Nonostante la musica marziale a tutto volume e l'enorme folla che mi pressava, riconobbi facilmente lo stesso malconcio calcio del fucile 22 mm portato da un soldato indiano non appena mi passo' davanti per la seconda volta. La bandana verde che sporgeva dalla tasca posteriore di un altro soldato mi confermo' l'imbroglio. Il tentativo di Marcos di raggirare la folla era cosi' rozzo che stentavo a credere che qualcuno potesse cascarvi, se non forse i piu' ingenui.
E piu' cose venivo a sapere sul conto di Matthews, meno potevo accettare l'idea che si fosse lasciato ingannare a quel modo. Lessi i suoi libri, a cominciare dalla biografia di Castro che scrisse ad Antibes e scorsi ogni articolo che aveva pubblicato su Cuba, partendo dall'intervista nella Sierra. Li trovai molto piu' efficaci e molto meno professionali di quanto mi sarei aspettato. Bruciavano di una passione allo stato puro che talvolta si concretizzava in un'inequivocabile parzialita' nei confronti di Castro. Cercai di distinguere la verita' dal mito che si era formato intorno a Castro e alla rivoluzione e la mia curiosita' si trasformo' in dubbio. Alcuni aspetti del passato di Matthews suggerivano che fosse stato un visionario, un simpatizzante socialista che avrebbe anche potuto sfruttare la propria posizione per promuovere una causa. Ma era anche scrupolosamente onesto nei suoi scritti e autocritico circa i suoi servizi, in quanto ammetteva gli errori di fatto, ma insisteva di non aver mai scritto niente che in quel momento non avesse ritenuto vero. Quella contraddizione sollevava alcune questioni sulla natura della verita' stessa. Se la verita' riferita si rivela in seguito qualcos'altro, e' pur sempre una verita'? E se, come sembra, quei primi resoconti hanno influenzato le decisioni politiche americane in merito ai rapporti con Cuba e Castro, ne era in qualche modo responsabile Matthews?
Avevo da poco completato il necrologio di Castro, quando i terroristi attaccarono New York e Washington. Nei mesi e negli anni successivi cambiarono molte cose e talvolta sembro' che la verita' stessa fosse stata ridefinita. Finii per rendermi conto che le difficolta' incontrate da Matthews erano simili a quelle che erano nell'aria all'inizio del XXI secolo. La guerra fredda dei tempi di Matthews era simile alla guerra al terrorismo dei giorni nostri: conflitti non convenzionali che rappresentavano uno scontro di idee, senza fronti definiti o strategie militari convenzionali. Entrambi coltivavano il sospetto e dipingevano i dissidenti come nemici: il maccartismo degli anni '50 aveva ripreso forma nell'ossessione dell'era del terrorismo. Matthews, pur non essendone mai del tutto consapevole, aveva intuito fino a che punto l'isteria della guerra fredda avesse distorto la politica estera americana. In quanto corrispondente esperto che aveva seguito con energia e coraggio l'invasione italiana dell'Etiopia, la guerra civile spagnola e tutta la Seconda Guerra Mondiale, conosceva bene le armi di guerra. I suoi articoli dimostravano che era un acuto osservatore, uno scrittore disinvolto e un reporter attento, uno che Ernest Hemingway una volta descrisse come "audace come un tasso". Via via che procedevo nelle mie ricerche, mi riusciva sempre piu' difficile immaginare che un uomo simile si fosse lasciato raggirare da Castro. La questione divenne quindi ancora piu' complessa, perche', se non era stato ingannato da Castro, aveva forse parteggiato per lui sin dall'inizio, distorcendo la realta'?
Quando la guerra al terrorismo sfocio' nella guerra all'Iraq (senza che le armi di distruzione di massa venissero mai ritrovate), i giornali, e in particolare il Times, finirono sotto attacco. Dapprima tocco' a un giovane reporter di nome Jayson Blair, che aveva deliberatamente ingannato i suoi lettori e direttori. In quel caso, disse il Times, si era "toccato il fondo dei 152 anni di storia del giornale". Poi, due anni dopo, una delle giornaliste di spicco del quotidiano, Judith Miller, fu coinvolta nelle indagini a causa di una fuga di notizie dalla Casa Bianca che sollevarono nuove questioni circa i suoi servizi fuorvianti, prima della guerra, a proposito delle armi di distruzione di massa in Iraq. Fu oggetto di feroci critiche per essersi fidata di una fonte irachena discutibile, Ahmed Chalabi, e di funzionari dell'Amministrazione Bush che, a quanto pareva, avevano cercato di servirsi di lei per promuovere la guerra. "Se le tue fonti sono sbagliate, sei tu che sbagli", ha affermato la Miller, e una simile dichiarazione sembra richiamare alla memoria i servizi di Matthews su Castro di quasi mezzo secolo prima. Durante i dibatti che seguirono alle rivelazioni su Blair e la Miller, si fece spesso il nome di Matthews insieme a quello di un altro controverso corrispondente del Times, Walter Duranty. I direttori del Times presero le distanze dal lavoro di Duranty in Unione Sovietica e dal Pulizer che vinse nel 1932 per alcuni articoli che simpatizzavano eccessivamente con il regime di Stalin; costrinsero Blair a dimettersi, e cosi' pure la Miller, dopo averla criticata pubblicamente, mentre nulla era stato detto a proposito di Matthews.
Uno degli obiettivi della mia indagine era scoprire se Matthews avesse meritato di essere incluso nella stessa categoria di Duranty e Blair, e poi di Judith Miller. Prima di lasciare il Times, Matthews aveva ammesso di essere effettivamente l'uomo che aveva inventato Fidel. E ne era fiero, convinto che quel suo atto creativo  permettesse a lui, piu' che a ogni altro giornalista, di essere in prima linea nella ricerca della verita'. Essendo interessato alla storia dei rapporti degli Usa con l'America Latina, avevo bisogno di conoscere il ruolo avuto da Matthews nel processo che aveva trasformato in uno dei nostri piu' acerrimi e pericolosi nemici un paese che di diritto avrebbe dovuto essere una nostra nazione confinante. Mi ritrovai in una situazione particolare nei confronti di Matthews, che non ho mai conosciuto. Il mio primo articolo sul Times apparve un anno dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1977. Ma, mentre preparavo il necrologio che avrebbe annunciato la scomparsa di Castro, dovevo capire come Matthews l'avesse risuscitato dai morti. Dovevo sapere se Matthews era caduto nella trappola di credere che non ci fosse altra verita' se non la versione dei fatti da lui stesso fornita. Fino alla sua morte, Matthews fu fermamente convinto che la storia avrebbe riabilitato lui e la sua reputazione, senza rendersi conto che, mezzo secolo dopo, la sua intervista a Castro sarebbe rimasta tanto controversa quanto allora, un momento singolare della paranoia da guerra fredda che sopravvive come sigillata in una bottiglia che galleggia da sempre nel mare della retorica e delle recriminazioni.
Qualunque cosa Matthews abbia scritto successivamente di Castro e della propria vita, il racconto torna sempre a quei giorni del 1957, quando soltanto lui sapeva con certezza se Castro era riuscito a sopravvivere al pasticcio che definiva la sua invasione di Cuba.

Capitolo 1

Si è mai visto niente di più assurdo?

Sabato, 1 dicembre 1956
Al largo della costa sud-orientale di Cuba
Erano in ascolto.
Soffocati dall'oscurità di quella notte invernale, erano in ascolto, tendendo le orecchie per sentire la voce che si faceva sempre più flebile.
"Aquí! Aquí! Aquí!"
L'acqua era nera quanto la notte era fitta, una coperta perfetta che assorbiva ogni barlume di luce e deviava ogni suono. Per una settimana, gli ottantadue uomini pressati a bordo della malconcia imbarcazione da diporto da sessantuno piedi avevano tenuto a freno la lingua, esprimendosi con niente altro che sussurri per non attirare l'attenzione delle pattuglie organizzate da Fulgencio Batista, il dittatore cubano che avevano giurato di rovesciare. Ora, in preda al panico, maledicevano la notte e il mare che aveva preso uno di loro.
"Qui!" La voce si affievoliva sempre più, come il rumore dei passi che si perde in fondo a una via. Soltanto quelli che gli stavano più vicini sapevano che si trattava di Roberto Roque, che si era arrampicato sul tetto sdrucciolevole della cabina di comando in cerca di uno sprazzo di luce. Secondo i loro calcoli, il faro di Cabo Cruz, sulla cima ricoperta di fitte foreste della Provincia d'Oriente, a circa 800 chilometri a est dell'Avana, avrebbe dovuto lampeggiare all'orizzonte. Roque si era sporto reggendosi a una sbarra fissata all'antenna della barca, nel tentativo di cogliere un qualunque bagliore, che segnalasse agli uomini speranzosi il loro approssimarsi a terra. Ma non si vedeva nulla.
Il fatto che sembrassero incapaci di ritrovare la strada di casa era un segno di quanto fosse improbabile la loro missione. Dopo tutto, Cuba è di gran lunga l'isola più grande dei Caraibi, con 3710 chilometri di coste e varie catene montuose, compresa l'impervia Sierra Maestra nella provincia d'Oriente, con il Pico Turquino che sovrasta ogni cosa. L'isola si distende sulle acque color acquamarina dei Caraibi come il fumo di un falò, ondeggiando in direzione delle coste statunitensi che incutono soggezione. E come il fuoco, è calda ed eterea, dalla seducente Santiago de Cuba, a est, alla sofisticata Avana a ovest. Nel mezzo ci sono fattorie, spiagge, ferrovie, fabbriche, musei, teatri dell'opera, donne vestite elegantemente e astuti uomini d'affari dai capelli scuri, un intero mondo esotico e magico a sé stante. E non riuscivano a trovarla.
Roque aveva iniziato a calarsi sulla massa di braccia e gambe aggrovigliate come funi sul ponte proprio nel momento in cui un'onda aveva scosso la vecchia barca. E aveva perso la presa.
"Fermate i motori", gridò qualcuno. Tutti gli uomini che riuscivano ad alzarsi si sporsero fuori bordo, ma era come guardare nel pozzo di una miniera.
"Qui!"
Il pilota dominicano, Pichirilo Mejiás, fece forza sul timone per far girare la vecchia imbarcazione, guidato soltanto dalla speranza. Continuò a girare e girare, ma inutilmente. Come potevano trovare la testa di un uomo che faceva su e giù come una noce di cocco nell'acqua, quando non riuscivano neanche a localizzare la costa frastagliata di Cuba? Gli uomini erano stanchi, e affamati, e non ne potevano più del mare che li aveva torturati negli ultimi sette giorni quando, partiti da Tuxpan, in Messico, avevano attraversato il Golfo fino alle acque al largo della costa sud-orientale della loro seducente madrepatria.
Erano già disperatamente in ritardo. Avevano ascoltato alla disturbata radio di bordo come l'insurrezione che avrebbero dovuto avviare fosse iniziata senza di loro a Santiago de Cuba per estinguersi rapidamente. Mentre i compagni venivano arrestati o assassinati, loro erano rimasti in alto mare per due giorni.
"Qui!"
La voce di Roque era svanita quasi completamente e molti degli uomini cominciavano a farsi prendere dal panico. Stava andando tutto storto e ancora non avevano sparato neppure un colpo. Tutti quegli uomini avevano giurato di dare tutto, compresa la vita. A quello si erano esercitati, in Messico, agli ordini del vecchio colonnello spagnolo che li aveva addestrati a maneggiare un fucile e a marciare per giorni senza lamentarsi. A quello si erano preparati quando caricavano armi e munizioni sullo yacht mangiato dai vermi che l'ex proprietario americano aveva affettuosamente battezzato Granma, nonna. Su quello si erano concentrati mentre si tenevano lo stomaco e chinavano la testa nei secchi quando i venti di El Norte, a quaranta nodi, scuotevano la loro barchetta sbattendola come un giocattolo da un'onda alla successiva, per gran parte del tragitto dal Messico. Ora, con le ginocchia molli e puzzolenti di vomito e carburante, non erano preparati all'idea che uno di loro morisse senza aver combattuto.
Erano passati quarantacinque minuti, ognuno dei quali aveva contribuito a rafforzare il tremendo pensiero che la missione stessa, così come Roque, fosse condannata. Poi, quando ormai temevano di doverselo lasciare alle spalle, il comandante ordinò di accendere il riflettore, anche se ciò avrebbe rivelato la loro posizione. Sentirono di nuovo la voce di Roque, molto più debole, e più impaurita che pressante.
"Qui!"
Mejiás, il pilota, fu il primo a individuarlo e poi molti altri si diedero da fare per ripescarlo. Lo tirarono a bordo, grondante acqua gelida e paura. Ancora una volta, a quel che sembrava, la sfortuna aveva minacciato la loro missione dimenticata da Dio, ma erano riusciti a evitare il disastro. Guardarono il loro jefe per essere rassicurati. Fidel Castro appariva sempre risoluto e così andarono avanti.
Tutti quei giri per trovare Roque avevano confuso il pilota e portato la barca ancor più fuori rotta. Quando le vedette scorsero finalmente i bagliori del faro di Cabo Cruz, i primi fili del giorno avevano già cominciato a serpeggiare tra le tenebre. Una foschia bluastra aderiva alla superficie del mare mentre scivolavano in acque meno profonde. Il profilo vago degli alberi li squadrava attraverso l'alba grigia. Silenziosamente, lo scafo di legno della Granma grattò il fondale sabbioso e sbandò arrestandosi, incapace di procedere oltre o di disincagliarsi.
Un centinaio di metri li separava ancora dai primi alberi, che scorgevano in lontananza mentre si strappavano di dosso gli abiti maleodoranti e indossavano le nuove uniformi color grigioverde con lo stemma rosso e nero del Movimento 26 luglio sulla spalla. S'infilarono gli stivali nuovi. Aprirono alcune scatole e Castro distribuì loro fucili e pistole che odoravano ancora dell'olio da imballaggio.
Nonostante lo stato miserevole dei suoi uomini e il danno già provocato dai suoi limiti logistici, Castro rimaneva fiducioso. Il pensiero di rimettere piede sul suolo cubano dopo quasi diciotto mesi di esilio lo aiutava a dimenticare tutto ciò che era andato storto. Quegli inconvenienti erano insignificanti in confronto a quanto stavano per compiere. Per la prima volta nella sua storia lunga e travagliata, Cuba sarebbe stata liberata da tutte le catene coloniali. Non avrebbe dovuto più sopportare il giogo spagnolo che aveva fatto di Cuba la prima delle colonie spagnole nel Nuovo Mondo e l'ultima che quell'impero ormai decrepito aveva ceduto (e soltanto dopo aver perso la guerra con gli Stati Uniti nel 1898). E Cuba non sarebbe stata più la pseudo-colonia americana corrotta che si era venuta a creare in seguito alla partenza degli spagnoli, con Washington che sosteneva un Presidente disonesto dopo l'altro. No, la rivoluzione che stavano per avviare avrebbe liberato Cuba una volta per tutte e, sebbene non ne avesse ancora elaborato l'esito finale, né valutato realisticamente come (e da chi) sarebbe poi stata governata, Castro si rendeva conto che la sua rivoluzione sarebbe stata una battaglia di idee come quella mossa dal suo eroe José Martí. Non aveva bisogno di un esercito più grande di quello di Batista. Per la sua guerra gli servivano soltanto cuori intrepidi e voci stentoree per esortarli.
Aveva una vaga idea di ciò che avrebbe fatto dopo la vittoria, e degli ideali che avrebbero trionfato, ma nessun piano definito sul modo in cui avrebbe guidato  Cuba. Quello sarebbe venuto dopo. Ora ciò che gl'interessava era tener fede al giuramento fatto nel 1955, nel corso di un viaggio a New York per raccogliere fondi, e poi ripetuto dovunque andasse. "Per la fine del 1956 saremo liberi o saremo dei martiri", aveva promesso seriamente. Ed era quasi l'alba del 2 dicembre 1956.
La Granma giaceva senza vita sull'acqua. Il "dinghy", stracolmo di attrezzature e provviste, pendeva da un lato, poi s'inclinò pericolosamente e si rovesciò, affondando immediatamente e portando con sé molte delle provviste su cui gli uomini contavano per sopravvivere. Non ebbero il tempo di far altro che saltare in acqua. Persino i più leggeri affondarono fino alle anche e tutti dovettero tenere i fucili alti sopra la testa. Erano approdati nel posto sbagliato. Anziché sbarcare sulla riva sabbiosa dove era previsto che alcuni simpatizzanti li attendessero con camion, armi e provviste, erano finiti in una palude coperta di mangrovia che si avvinghiava agli stivali e sferzava loro mani e braccia, facendo di ogni passo una lotta.
Era mattina ed erano pericolosamente esposti. Batista temeva un'invasione del genere e aveva allertato l'esercito. Da una chiatta di passaggio avevano riferito che la Granma si era incagliata in una zona in cui nessun navigatore nel pieno delle proprie facoltà mentali avrebbe cercato di approdare, a meno che non intendesse nascondersi. Con Santiago sotto il suo controllo, il comandante locale dell'esercito riteneva che si trattasse dell'invasione che tutti stavano aspettando. Gli aerei militari trovarono la Granma, ma non riuscirono a localizzare le forze d'invasione nel folto delle mangrovie. Volarono a bassa quota sulla zona, mitragliando indiscriminatamente le cime degli alberi. Nascosti dalla fitta foresta, gli uomini di Castro potevano praticamente vedere all'interno dell'abitacolo degli aerei che passavano rombando sopra di loro.
Verso le sette del mattino del 2 dicembre, circa tre ore dopo aver lasciato la Granma, i primi ribelli uscirono barcollando dalle mangrovie e si lasciarono cadere sulla fine sabbia bianca. Si riposarono soltanto un attimo, prima di ricevere l'ordine di raggiungere rapidamente i boschetti al margine della spiaggia. Si avvicinarono alla capanna di un contadino. Nessuno sapeva se l'uomo avesse mai sentito parlare di Fidel Castro e furono sollevati quando questi offrì loro cibo e acqua. Si fermarono un momento a scrostare il fango dalle loro uniformi. Juan Manuel Márquez, uno dei capitani di Castro disse: "Non è stato uno sbarco, è stato un naufragio" e gli altri risero. Stavano per gustare ciò che il contadino aveva offerto loro quando udirono alcune esplosioni. Non avrebbero saputo dire se si trattasse di un bombardamento aereo o se a sparare fossero i lunghi cannoni di un cutter della guardia costiera, ma le esplosioni si facevano più vicine e loro non sapevano assolutamente dove andare.

Domenica, 2 dicembre 1956
L'Avana
Un'altra domenica all'Avana. La città vecchia pulsava di una dolce pigrizia che riempiva le strade bianche come l'eco del clip-clop di un carro trainato da un cavallo. Da tempo la domenica non era riservata ad alcuna attività rilevante ne La Capital, se si esclude l'andare a messa o far visita alla famiglia. Per tutti coloro che non erano legati a nessuno di questi potenti poli della vita cubana, la domenica era un giorno come gli altri, ma più corto perché si poteva dormire qualche ora in più.
Era già trascorsa mezza giornata; nel primo pomeriggio R. Hart Phillips arrivò nell'ufficio del New York Times al secondo piano dell'antico edificio in stile spagnolo in via Refugio, nei pressi del palazzo presidenziale dell'Avana. Nessun corrispondente americano a Cuba conosceva quel paese meglio della Phillips, la quale utilizzava soltanto la prima iniziale del suo nome - Ruby - per sviare quanti non si sarebbero fidati di un corrispondente di sesso femminile (in quell'epoca ci si aspettava che le donne si limitassero a scrivere di cronaca rosa). Le era stata offerta l'opportunità di quel lavoro perché un posto come Cuba aveva soltanto una parte secondaria nel grande dramma della guerra fredda. L'attenzione degli Stati Uniti era rivolta all'Unione Sovietica e alla repressione del comunismo ovunque minacciasse di saltare fuori.
L'America Latina era controllata in larga misura da dittatori di destra. L'interesse per la regione divampò per un breve periodo nel 1953, quando il Presidente del Guatemala, Jacobo Arbenz, assunse atteggiamenti da comunista e la CIA orchestrò un colpo di stato per sostituirlo. Ma Cuba era considerata sufficientemente sicura: Batista, un ex sergente meticcio, senza dubbio corrotto, la governava con un pugno di ferro. Era salito al potere per la prima volta nel 1933 e da allora era stato in carica più volte.
Sebbene ci fossero stati dei comunisti nei suoi primi governi, Batista li aveva scacciati dopo aver organizzato un secondo colpo di stato nel 1952. Washington lo tollerava fintantoché collaborava a soddisfare le esigenze americane, e si aspettava che un presidente cubano sapesse quali fossero queste esigenze, anche se non gli venivano espressamente comunicate. Gli Stati Uniti, pur essendo coinvolti direttamente nel controllo di Cuba da quando i Rought Riders di Theodore Roosevelt avevano assaltato la collina di San Juan nel 1898, avevano resistito alla tentazione di annettersi l'isola, come alcuni imperialisti nascenti esortavano a fare. Tuttavia, Washington aveva trovato un'alternativa quasi altrettanto soddisfacente. Il Platt Amendment del 1903 alla nuova costituzione di Cuba concedeva a Washington il diritto di intervenire negli affari cubani, facendo di quella nazione, in pratica, un burattino nelle mani degli Stati Uniti e ritardando ogni significativo cambiamento del suo ordine sociale. Truppe americane sbarcarono varie volte sulle spiagge cubane prima che l'emendamento fosse formalmente abrogato dal Presidente Franklin D. Roosevelt nel 1934. Ma anche in seguito, l'ambasciatore americano all'Avana rimaneva uno degli uomini più importanti di Cuba, per certi versi perfino più potente di chiunque sedesse nel palazzo presidenziale. I funzionari e i giornalisti americani avevano di Cuba la stessa opinione della maggior parte degli americani che vi si recavano per divertirsi e giocare d'azzardo: un'appendice amica e familiare degli Stati Uniti.
Ruby Phillips conduceva una vita agiata all'Avana. Brusca e severa, era un fascio di energia nervosa avvolto dal fumo delle immancabili sigarette. Si era abituata a vivere quasi solo di latte per varie settimane di seguito a causa dell'ulcera, che credeva fosse dovuta al suo lavoro. Conosceva presidenti e generali e tutti, a quanto pareva, conoscevano Ruby. Ecco perché era così furiosa quando, appena arrivata in ufficio quella domenica pomeriggio, più per dovere che per necessità, ricevette un messaggio di un redattore del Times che voleva saperne di più su un pezzo diffuso quella mattina dall'agenzia di stampa United Press. L'articolo sosteneva che dei ribelli, guidati dall'enigmatico Fidel Castro, avevano cercato d'invadere l'isola ma erano stati sgominati appena sbarcati. La Phillips era abituata a ricevere in anticipo le soffiate dalla sua rete di informatori, ma questa volta la rete aveva fallito e non sapeva assolutamente nulla di quell'invasione. Chiamò il suo contatto a Manzanillo, sulla costa sud-orientale di Cuba, e questi le disse quel poco di cui era a conoscenza: si stavano diffondendo rapidamente delle voci secondo le quali Castro era arrivato dal Messico su una piccola imbarcazione. L'esercito sosteneva di aver ucciso quasi immediatamente sia lui che la maggior parte dei suoi uomini.
La Phillips in poco tempo ebbe la conferma che l'invasione era effettivamente avvenuta. Dal quartier generale dell'esercito seppe che il generale Pedro Rodríguez Ávila, ufficiale comandante di quell'area, aveva ordinato agli aerei di mitragliare e bombardare la spiaggia e la palude ricoperta di mangrovia dove erano sbarcati gli insorti. I militari sostenevano di averne uccisi quaranta, compreso lo stesso Fidel e suo fratello minore, Raúl. Mentre faceva le sue telefonate, la Phillips maledisse Castro. Per una qualche ragione, questi sceglieva sempre le domeniche - il giorno in cui era più difficile trovare qualcuno in grado di confermare qualsiasi informazione - per avviare le sue rivoluzioni. Aveva scelto il 26 luglio 1953 - una domenica mattina - per attaccare la caserma della Moncada a Santiago, la seconda installazione militare di Cuba per armamenti e sorveglianza.
Era un weekend di carnevale e aveva sperato di sorprendere le guardie nel sonno dopo i bagordi della notte precedente. Ma il piano fallì rapidamente e i soldati ebbero facilmente la meglio sugli invasori. Fidel e Raúl furono catturati e, dopo un processo che fece scalpore, vennero condannati entrambi alla reclusione sull'isola dei Pini (Raúl avrebbe scontato tredici anni, Fidel quindici). Là erano rimasti fino a che Batista non aveva ceduto alle pressioni dei gruppi di opposizione che chiedevano il rilascio di centinaia di prigionieri politici, tra cui i fratelli Castro. Pensando di avere poco da temere da quei rivoluzionari falliti che avevano portato a morire tanti loro seguaci, Batista firmò l'amnistia. I fratelli uscirono di prigione nel maggio 1955, più fanaticamente votati alla rivoluzione di prima.
Ora, poco più di un anno e mezzo dopo la liberazione di Castro, la Phillips era di nuovo sulle sue tracce. Chiamò il giornalista dell'altra agenzia di stampa all'Avana, che lavorava per l'Associated Press, ma costui non sapeva niente di più della United Press. Non essendo in grado di confermare la morte di Castro, la Phillips disse ai suoi direttori a New York di nutrire dei dubbi su quella notizia. Era frustrante per lei sapere di non avere molta influenza a New York, e di certo non poteva uguagliare l'autorità di un Herbert Matthews, che sicuramente le sarebbe stato addosso una volta che avesse avuto notizia dell'invasione. Se fosse stato lui a dire ai direttori di non pubblicare la notizia diffusa dall'UP, sicuramente questi si sarebbero astenuti; ma Ruby non godeva di quel privilegio. Le notizie grosse scarseggiavano in quella domenica di dicembre e i direttori dell'edizione del weekend avevano deciso di utilizzare quel servizio sensazionale anche per i particolari che conteneva. Il corrispondente dell'UP, Francis L. McCarthy, aveva riferito che l'esercito era riuscito a identificare i resti di Fidel e di suo fratello dai documenti trovati sui loro cadaveri crivellati di colpi.
Nonostante i suoi molti anni all'Avana - era diventata corrispondente quando il marito, James Doyle Phillips, che seguiva Cuba per il Times, era morto in un incidente automobilistico nel 1937 - Ruby Phillips non riuscì a convincere i suoi direttori ad aspettare finché non avesse verificato i fatti. La notizia uscì sull'edizione del lunedì mattina in cima alla prima pagina. L'articolo proseguiva nelle pagine interne ed era affiancato da una delle prime fotografie di Castro apparse su un giornale. La didascalia ne annunciava la morte. Pochi, all'Avana, sapevano cosa fosse accaduto sulla spiaggia in Oriente ed erano ancora meno quelli scioccati dall'idea che Castro avesse condotto i suoi seguaci a un'altra disfatta. Proprio come alla Moncada, dicevano. Ma che cosa avrà pensato mai? In quel momento, alla fine del 1956, Cuba sembrava un posto altamente improbabile per una rivoluzione.  Il turismo prosperava e la Phillips aveva appreso dalle sue interviste a importanti imprenditori che gli indicatori economici erano favorevoli come sempre. Cuba era ancora un paradiso, un paradiso corrotto forse, ma molti cubani ci vivevano bene. Una rivoluzione in un momento in cui tutto andava bene... era sconcertante.

Lunedì, 3 dicembre
New York
Herbert Matthews arrivò nel suo ufficio in Times Square quel lunedì mattina e lesse con incredulità le notizie provenienti dall'Avana. Non se l'aspettava, non così presto, almeno. Quell'uomo alto, magro e leggermente curvo, che faceva parte del consiglio editoriale del giornale, non conosceva Cuba quanto Ruby Phillips, ma di solito aveva un buon fiuto giornalistico per le situazioni più scottanti. Aveva visitato l'isola alcune volte dal colpo di stato di Batista nel 1952 ed era rimasto moderatamente impressionato dal pragmatismo del dittatore. Quando era diventato editorialista nel 1949, l'America Latina non rientrava tra le aree di sua competenza; ben presto, però, aveva scoperto che nessun altro aveva interesse a scrivere di quell'emisfero perché esso, praticamente, non aveva alcun ruolo nella guerra fredda, e così si era autoproclamato esperto della regione. Portò la moglie Nancie in giro per l'America Centrale e Meridionale, fermandosi a far visita ai Presidenti e a tastare il polso delle capitali, da Montevideo a Città del Messico. Era uno dei piccoli trucchi con cui poteva compensare il fatto di aver dovuto rinunciare al lavoro che era stato la passione travolgente della sua vita.
Come uno dei più audaci corrispondenti esteri del giornale negli anni '30 e '40, Matthews si era ritrovato al centro di quasi tutti i grandi conflitti del mondo occidentale. Aveva assistito all'invasione italiana dell'Etiopia e all'ascesa del fascismo. Era sul campo durante la guerra civile spagnola e successivamente aveva coperto lo sbarco alleato in Italia, aveva riferito delle difficoltà del governo britannico in India e, da Londra, aveva seguito la ricostruzione postbellica dell'Europa. Nel 1949, un cuore malato e l'avanzare dell'età lo avevano costretto a rientrare a New York.
Ma non si trattava di una punizione. A Matthews era stato assegnato un ufficio spazioso al decimo piano del Times Building ed era libero di viaggiare, pensare e scrivere. Non gli era consentito firmare la maggior parte degli articoli che scriveva (come, d'altra parte, non era permesso ai colleghi). Tuttavia, la sua nuova posizione lo avvicinava per quanto possibile a quel mondo accademico di cui, in cuor suo, era sempre stato convinto di fare parte.
Matthews, però, era uno studioso con un limite invalicabile, un intellettuale con le dita sporche d'inchiostro e, nel cuore, l'inclinazione di un soldato a esporsi al pericolo. Sebbene fosse al giornale dal 1922 e considerasse New York casa sua, si sentiva un estraneo a lavorare in quel palazzo dopo aver trascorso tanti anni all'estero. Per lui, la regola fondamentale del giornalismo era trovarsi là dove accadevano i fatti. Essere costretto a presentarsi in ufficio ogni giorno violava l'immagine che aveva di se stesso: quella di un corrispondente purosangue. Era ancora libero e pronto per l'avventura quando era tornato a New York e certamente non aveva intenzione di abbandonare per sempre l'attività di inviato. Conoscendo lo spagnolo ed essendo esperto di affari europei, Matthews scriveva sia editoriali che articoli su quella regione. In tal modo violava la politica consolidata del giornale che prevedeva la separazione tra notizie e opinioni, ma aveva la benedizione dell'editore, Arthur Hays Sulzberger. Anni prima, Matthews si era prefisso di diventare amico di Sulzberger e di sua moglie, Iphigene, che aveva voluto come madrina del figlio, Eric.
L'anzianità di servizio di Matthews, la sua vasta esperienza al fronte e i suoi modi imperiosi facevano sì che pochi osassero ostacolarlo. Quando lesse del disastroso tentativo di invadere Cuba, Matthews non sapeva praticamente nulla di Castro, ma era fermamente convinto della storica instabilità dell'isola. Con l'articolo sul fatale fiasco ancora ben impresso nella mente, Matthews scrisse un editoriale in cui arrivava a un'inevitabile conclusione: il popolo cubano sembrava possedere una natura particolare che sollecitava la violenza e precludeva ogni possibilità di raggiungere una stabilità duratura. In quell'editoriale, pubblicato il giorno seguente, Matthews interpretava la tentata invasione come un altro sintomo psicologico che rivelava come quel paese gestisse già con eccessiva incertezza la propria indipendenza per votarsi davvero alla democrazia. Quanto a Castro, Matthews non scorgeva nulla d'impressionante nel suo strampalato complotto, che definiva "patetico". Derideva quell'invasione e il modo in cui il leader ribelle ne aveva annunciato anticipatamente l'attuazione. "Si è mai visto niente di più assurdo?", chiedeva. Matthews aveva assistito alla sua buona dose di invasioni e insurrezioni e non vedeva nulla di cui rallegrarsi in quell'ultimo incidente. Non era convinto che le notizie iniziali circa la morte di Castro potessero essere prese per vere, soprattutto dopo che il portavoce di Batista aveva definito l'intera operazione un altro trucco propagandistico dei fratelli Castro.
Matthews esprimeva un giudizio relativamente positivo su Batista, perché la sua presidenza aveva ridato stabilità economica a quell'imprevedibile paese. Ma lo criticava per il colpo di stato del 1952 e ne condannava le tattiche intimidatorie nei confronti dell'opposizione. Concludendo l'editoriale, Matthews, con una valutazione avventata, negava a Castro ogni possibilità di successo: "Come poteva una rivoluzione annunciata in anticipo avere successo contro un regime come quello del generale Batista, che controlla un esercito che gli è fedele? Non c'era la benché minima speranza che una rivolta del genere potesse riuscire nelle circostanze attuali".

Martedì, 4 dicembre
L'Avana
Ruby Phillips trasse una piccola soddisfazione dalle ultime informazioni provenienti dal palazzo. Il portavoce di Batista aveva smentito le prime notizie secondo cui Castro era stato ucciso nella provincia d'Oriente, dimostrando che i direttori della giornalista avrebbero dovuto darle retta e non pubblicare in prima pagina la notizia d'agenzia non confermata a proposito dell'invasione. I suoi dubbi si erano moltiplicati quando aveva scoperto che l'unica fonte dell'UP era un pilota cubano zelante, eccessivamente entusiasmato dal suo stesso eroismo. Il pilota aveva addirittura fornito al corrispondente dell'UP l'ubicazione delle fosse poco profonde a Punta de Las Coloradas dove sarebbero stati sepolti i corpi di Castro e degli altri ribelli. Tutte le informazioni si erano rivelate false, come la Phillips aveva sospettato. Il cadavere non era quello di Fidel. Ma allora, lui dov'era? Era mai stato a bordo di quello yacht decrepito? Ruby aveva sentito voci secondo le quali Castro si trovava ancora in Messico.
La Phillips non lasciò il suo ufficio all'Avana per indagare. Di rado lo faceva. Dopo aver vissuto per più di trent'anni in quella città, credeva che fosse più importante sapere cosa stesse accadendo che verificarlo con i propri occhi. Si mise in contatto con le sue fonti nella provincia d'Oriente e al palazzo presidenziale. Queste le fornirono informazioni sufficienti per scrivere nei giorni successivi una serie di articoli che illustravano con dovizia di particolari la caccia ai ribelli da parte dell'esercito; il gruppo, che in un primo momento si riteneva composto da un numero imprecisato di uomini che oscillava tra i 120 e i 400, si stava dirigendo a est dalla costa verso il cuore della Sierra Maestra. Batista si preoccupava così poco di Castro che non aveva neanche interrotto una partita a canasta. Lo considerava un gangster con idee politiche folli. Era convinto che fosse un comunista. Già solo quel fatto, pensava Batista, bastava a garantirgli l'appoggio degli americani per tutto il tempo in cui sarebbe rimasto in carica.
Batista aveva già almeno 600 uomini schierati sulle colline pedemontane della Sierra Maestra, a cui si sarebbero aggiunte altre centinaia di soldati per rafforzare la linea di sicurezza intorno a quelle impervie montagne. Agli aerei militari era stato ordinato di sganciare volantini che esortavano i ribelli ad arrendersi. Contadini locali che incontravano gruppi di ribelli nei boschi ne comunicavano la posizione alle autorità militari. Il governo mostrò perfino uno degli insorti catturati, José Díaz di Pinar del Rio: questi affermò che Castro gli aveva sparato a un fianco quando aveva cercato di arrendersi. Alla fine della settimana, la Phillips riferiva che i ribelli sopravvissuti, "attaccati implacabilmente dalle truppe governative", erano prossimi alla resa.

Venerdì, 28 dicembre
New York
Alla fine del 1956, la maggioranza degli americani la pensava, a proposito di Cuba, come Robert Wagner. Il popolare sindaco di New York smontò prima dal lavoro quel pomeriggio del 28 dicembre, un venerdì, e ordinò all'autista della sua limousine di portare lui e la sua famiglia all'Idlewild Airport, dove avrebbero preso un volo diretto per l'Avana. Sarebbero arrivati a Cuba in tempo per la cena e avevano in programma di rimanervi per una settimana di svaghi e relax. La morte di Fidel e l'eliminazione delle sue forze ribelli sembravano aver reso di nuovo sicura l'isola, spazzando via ogni motivo di preoccupazione. La Russia e la Cina erano posti pericolosi. E così pure l'Europa dell'Est, e l'Ungheria in particolare. Ma Cuba no.
Cuba era ancora un paese fantastico, un paradiso esotico grande circa quanto l'Ohio, che si poteva trattare come un campo da gioco americano benedetto da un clima meraviglioso e da spiagge perfette. I grandi hotel americani, e i casinò al loro interno, attiravano un numero sempre maggiore di vacanzieri statunitensi. Il più grande di tutti, l'Hotel Riviera, costruito con i soldi della malavita organizzata, sarebbe stato inaugurato da lì a pochi mesi. L'inglese americano era accolto con benevolenza e i dollari americani accettati con giubilo. Il denaro lasciato da giocatori d'azzardo e vacanzieri era una manna dal cielo per il governo cubano, che incassava una buona fetta dei proventi.
Quando a New York la temperatura scese e l'eccitazione del Natale fu passata, molti, oltre al sindaco, considerarono l'idea di allontanarsi dalla città. Herbert Matthews aveva accumulato un po' di ferie, così lui e Nancie decisero di andarsene per qualche giorno al sole dei Caraibi. Benché disgustato dalla pietosa invasione di Castro, Matthews intuiva che era un buon momento per visitare Cuba. Si teneva aggiornato sugli avvenimenti leggendo le notizie d'agenzia e gli articoli imperfetti redatti da Ruby Phillips, che tuttavia non riteneva all'altezza degli standard del Times. Sospettava che fosse a Cuba da troppo tempo e si fosse avvicinata a Batista e alla sua cerchia di scagnozzi per poter risultare credibile.

Gennaio 1957
L'Avana
All'inizio di un anno fatidico, Ruby Phillips pubblicò un'analisi economica di Cuba, da cui si poteva concludere che Batista si stava occupando dei problemi più gravi del paese portando avanti un imponente programma di opere pubbliche, finanziato in parte dalle vendite dello zucchero, la principale fonte di reddito di Cuba da generazioni. Le gru svettavano ovunque; si erano intraprese grandi opere pubbliche, come il lungo tunnel sotto il porto dell'Avana che avrebbe finalmente collegato le due parti della città. La struttura iniziava proprio di fronte al palazzo presidenziale, così nessuno avrebbe potuto dimenticare chi fosse il responsabile della modernizzazione di Cuba. Un'impennata della domanda mondiale aveva spinto il prezzo dello zucchero ai massimi livelli dal 1951. L'unica "nota stonata" che la Phillips coglieva era la minaccia dell'inflazione, mentre non faceva menzione del diffuso malcontento della popolazione, di cui pure era a conoscenza. Batista aveva colpito duramente il movimento di resistenza, ordinando un'ondata repressiva culminata in quello che molti cubani avevano definito il "regalo di Natale" del Presidente. Un comandante militare particolarmente brutale della provincia d'Oriente, lontano dai casinò dell'Avana, aveva giustiziato ventidue membri della resistenza urbana. Per assicurarsi che il messaggio antiterrorista del governo fosse inequivocabile, il comandante aveva ordinato che i corpi di diversi giovani fossero appesi agli alberi durante le vacanze natalizie.
Eppure, sembrava che Batista avesse il pieno controllo del paese. Washington era così favorevolmente impressionata dalla capacità del dittatore di preservare la stabilità che il governo statunitense aveva firmato un accordo per garantire investimenti americani a Cuba. I vincoli economici tra i due paesi si erano fatti più forti. Il Times riferiva che la American and Foreign Power Company aveva in programma la costruzione di un reattore nucleare da 10.000 chilowatt a Cuba, la prima centrale atomica in America Latina. Il ministro delle Comunicazioni di Cuba si comportava come se non esistesse la minima minaccia alla dittatura di Batista e concentrava i suoi sforzi sulla messa al bando dalla televisione cubana dei programmi di rock-and-roll in quanto "immorali, profani e offensivi del comune senso del pudore e del buon costume".