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Il potere della creatività

Intervento di Jacopo Fo ad Alcatraz, in occasione dell’incontro con un gruppo di psicologi – Prima parte - Seconda parte

Domanda: In che modo la tua creatività ti ha permesso di “evadere” da Alcatraz?

Jacopo: Ho spesso occasione di sottolineare la mia enorme fortuna: quella di essere vissuto in una famiglia molto creativa! Mi ritrovo così a fare lavori che, se non mi pagassero per farli, sarei io stesso a pagare per poterli realizzare… e questo per me è un obiettivo che ho cominciato ad apprendere già nella primissima infanzia, con modalità che mi hanno sempre motivato moltissimo.
I miei lavoravano davvero tanto, e avevo difficoltà ad avere la loro attenzione: ma avevo scoperto che quando disegnavo mio padre smetteva di fare qualunque cosa e si metteva a disegnare con me. Mi sembrava – e lo era! - un potere enorme, che, grazie al fatto che fin da quando avevo 3 o 4 anni era lo strumento con cui riuscivo ad avere l'attenzione di mio padre, ha fatto nascere in me la passione per il disegno.  
Mio padre non mi ha mai dato lezioni di arte, ho imparato guardandolo, penso anche attraverso i neuroni a specchio: il livello di “immersione” che avevano mio padre e mia madre quando facevano arte era totale.
Sotto questo punto di vista l'arte è un mezzo potentissimo, che nella nostra cultura è davvero sottovalutato. Ricordo mia madre nell'ultimo periodo della sua vita: era incredibile! Ad Alcatraz si organizzavano corsi di teatro ai quali partecipavano anche 100 ragazzi; mia madre era avvilita, stanca e depressa e si può dire che vivesse faticosamente la sua età, eppure quando iniziava a fare la lezione del suo corso lasciava tutti sconvolti: le cambiava la faccia, era come se facesse un lifting istantaneo, una roba da transmutazione! Questo cambiamento su una persona di ottantatré anni è immediatamente visibile e ne erano tutti stupiti, quasi fosse in preda a una possessione demoniaca!
Sempre a proposito della forza dell’arte: gli attori hanno una medicina che gli altri non possono prendere...
Vi racconto un aneddoto: Enzo Jannacci, oltre a essere un grande cantante, era un bravissimo cardiochirurgo, e una persona molto generosa: insomma, un grandissimo medico e un grandissimo uomo nelle relazioni con i malati.
Faccio una premessa: in teatro vige una regola ferrea, se c’è il pubblico non puoi non recitare, cioè se sei vivo devi salire sul palcoscenico, sei giustificato solo se sei morto.
Quando un attore era quasi morto ma doveva andare in scena si telefonava a Jannacci che dava il famoso “beverone Jannacci”, un cocktail fatto con un mix pazzesco inventato da lui, corrispondente a una super dose di cocaina, fatto però con aspirina, lassativo, vitamina c, whisky, due uova, ecc ...
Una volta Paolo Rossi era malatissimo - questa me l’ha raccontata proprio lui in persona – e gli danno questo “beverone Jannacci”: sale in scena, fa tutto lo spettacolo come se non fosse sembrato morto solo un attimo prima di entrare in scena, solo che finito lo spettacolo non riesce a smettere, per cui continua a raccontare altre cose della sua vita, altri aneddoti di quando era piccolo. Alla fine quelli del teatro gli dicono “Chiuso, eh” e lui si mette sui gradini davanti al teatro e continua... alla fine hanno dovuto ricoverarlo, fargli un'anestesia totale…  E’ che Enzo Jannacci non aveva ragionato sul fatto che a Paolo Rossi, essendo piccolo, sarebbe bastata mezza dose...
Sempre parlando di creatività c’è un’altra osservazione di fare. Ora, la recitazione non è un'attività razionale e c'è un rapporto molto strano tra quella che potremmo chiamare “mente scimmia” e il recitare. Faccio un esempio: può capitare di perdere il filo… attenzione, il filo dell'irrazionale… succede se ci si mette a pensare a quello che si sta facendo. E qui si corre un rischio pazzesco, quello di non ricordare più nulla. In pratica, se tu mentre reciti ti dici: “Ma che? sto recitando?!?”, si attiva la mente razionale che non è capace di ricordare le cose.
Quando questo accade in una commedia in cui ci sono più attori non è un grosso problema perché l'altro attore vede l'occhio perso e butta lì la battuta: “Siamo nel commissariato e allora lei, giornalista, cosa mi vuol dire?!” E tu capisci: “Ah cavolo, sono un giornalista, devo fare una domanda!”.
Quando si sta recitando un monologo è un disastro perché non c'è nessuno che può venire in soccorso.

A queste momentanee amnesie mia mamma aveva trovato una soluzione. Aveva dei fogli dove c'erano i titoli dei vari pezzi del monologo, una specie di scaletta.
Però c'è un problema: quando stai recitando, non riesci a leggere le parole, perché sei completamente nella mente non razionale che non è capace di leggere. Allora mia madre aveva pensato di mettere intorno alle parole degli aloni gialli, rossi, verdi, cioè di trasformare le parole in ideogrammi. In quel modo riusciva a leggerli.
Io e mio padre, amando il disegno, abbiamo trasformato questo metodo creando anche delle specie di fumetti, per cui nel foglio c’erano una serie di ideogrammi poi la raffigurazione di un omino che ricordava un movimento, oppure un oggetto, eccetera…
Mia madre è sempre stata la vera scienziata della famiglia.
La caratteristica del teatro epico - così come mio padre chiamava il teatro della narrazione in cui si raccontano storie - è che si interagisce con il pubblico: il pubblico, cioè, non è passivo e non guarda la rappresentazione come se la vedesse dal buco della serratura. No, in questo tipo di teatro l’attore parla con gli spettatori e così si crea l'improvvisazione.
L’esempio classico è lo spettatore che dice una frase, oppure se accade un incidente. L’attore, in questo caso, non fa finta di niente ma improvvisa una frase, una battuta. Il testo risulta così soltanto una specie di canovaccio, sul quale l’attore può fare quello che vuole.
Quanto agli spettacoli di mio padre, non si sapeva mai a che ora finissero perché se gli veniva in mente un'idea iniziava a fare un pezzo e invece di terminare alle 23 magari andava avanti fino alle 23 e 30 …  
Dove sta in questo caso il problema? Che poi non si è in grado di ricordare che cosa è stato detto durante l'improvvisazione! Qui si vede proprio bene la separazione tra il “cervello scimmia” e il cervello razionale: ciò che si fa con il “cervello scimmia” poi non ce lo ricordiamo.
E mia madre trovò la soluzione anche a questo problema: tutte le sere registrava lo spettacolo in modo che tutti i pezzi improvvisati poi potessero essere trascritti, annotati e memorizzati razionalmente. Altrimenti, pensate se a una battuta improvvisata tutti avessero riso come dei pazzi, e poi nessuno avesse saputo ricordare cosa era stato detto e non lo ricordasse neppure chi l’aveva fatta…!
Questa esperienza sicuramente l'avete fatta anche voi: succede ad esempio quando la mattina si resta a letto a poltrire e ogni tanto si fanno sogni e pensieri nel dormiveglia; e poi, quando si è proprio svegli svegli, non ce li ricordiamo. E magari dopo due o tre settimane ci si ritrova in quella situazione e ci si ricorda che avevamo pensato a quella cosa lì … e poi la si ridimentica!
E' straordinario... sono come due cervelli che vanno avanti in parallelo.
Per cui per me l'arte è stata proprio un mezzo di evasione reale: quando fai arte, come quando balli, quando canti, quando giochi con un bambino, quando fai l'amore… qualunque cosa che ti emoziona ha questa caratteristica: di portarti in un'altra dimensione della mente. (...)
(Continua)