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Il teatro e la lotta (prima parte)

Intervento di Jacopo Fo all’Università La Sapienza di Roma il 24 marzo 2017

Buonasera!

Non è garantito che la genetica assicuri anche di essere intelligenti… quindi voi avete questo grosso dubbio, che io capisco: sono solo un cretino figlio di Dario Fo e Franca Rame oppure no?
Quello che posso provare a mettervi a disposizione è una serie di cose che mi hanno insegnato, non si tratta tanto di informazioni quanto di un metodo.
Quello che sono, nel bene e nel male, è il risultato di un trattamento che tradizionalmente veniva messo in atto nelle famiglie degli attori. Se nelle famiglie dei clown e degli acrobati mettono i bambini nelle altalene a tre mesi di vita così che riescano a fare il triplo salto mortale prestissimo, la scuola che ho subito io, e in un certo senso non potevo farne a meno, è molto diversa dal percorso che solitamente si crede debba fare un attore. Io sono cresciuto in un sistema di bottega.
Mio padre e mia madre non mi hanno mai fatto una sola lezione di teatro.
Ho smesso di studiare a 17 anni perché non ero in grado di seguire il percorso scolastico che mi veniva proposto e quindi l’alternativa era: o continuare a studiare o mettersi a lavorare.
Ho scelto il lavoro e mio padre mi disse: “Mi servono venti maschere tra tre mesi per il prossimo spettacolo” e io timidamente risposi: “Ma non so fare le maschere, esimio genitore” e mio padre: “Va beh, impari. Vai ad Abano dal mio amico Donato Sartori e lui ti spiega come si fa”.
Quindi mi spediscono ad Abano Terme, arrivo in questo immenso capannone pieno di ogni tipo di scultura, oggetti da tutte le parti del mondo – se vi capita di passare di lì andate a vedere la casa di Donato Sartori, lui è morto ma la famiglia continua la tradizione: è uno dei più bei musei di maschere che esistano in Europa – … e dopo tre mesi ho consegnato a mio padre le venti maschere.
Non perché fossi particolarmente bravo ma perché, secondo me, la forza di questo metodo è che non è contemplato il fallimento: devi fare 20 maschere. Punto. Se fra tre mesi sei ancora vivo devi aver fatto venti maschere sennò vuol dire che sei morto.
E’ stato fatto un esperimento: le maestre di una classe di quinta elementare sono andate a parlare con i professori della prima media raccontando loro una frottola pazzesca. In pratica hanno detto a questi professori: “Vi arriverà una classe stranissima, noi pensavamo che fossero una manica di deficienti e invece sono dei geni. Noi li trattavamo come dei bambini normali e questi rispondevano in modo incredibile. Ci abbiamo messo un paio d’anni a capire questa cosa, quindi vi avvisiamo che vi arriverà questa classe unica nella storia della nostra esperienza scolastica”. I professori della scuola media dicono “Ok” e dopo tre anni questa classe che era stata selezionata per la sua assoluta mediocrità era diventata la migliore, i ragazzi avevano ottimi risultati e rispondevano ai test in maniera spettacolare.
Se nella vostra famiglia vi hanno sempre detto: “Non correre che cadi” sono cavoli amari, nel senso che vi hanno fatto una violenza mostruosa: i bambini devo correre e devono cadere. E quando cadono bisogna dire loro: “Wow! Sei ancora vivo! Incredibile! Sei stato proprio bravo!”
E questo è stato il metodo della mia famiglia. Si dava per scontato che io sapessi fare alcune cose. E alcune erano da Telefono Azzurro: a 11 anni attraversavo l’Italia in treno da solo. Per esempio: andavo da Milano a Roma, prendevo poi il taxi e arrivavo a teatro dai miei. Era considerato normale e a mia figlia in nessun caso avrei fatto fare una cosa del genere. Ma erano altri tempi e funzionava così.
La mia prima audizione la feci quando avevo circa 23 anni. La commedia prevedeva i personaggi della moglie, del marito e il figlio, tra l’altro pure drogato. I miei genitori mi chiesero di provare a recitare la parte del figlio, avevo l’età giusta. Feci il provino e mi presero, io non ero molto contento, speravo che mi bocciassero. E così sono fuggito e sono andato a vivere in campagna.
Negli anni poi mi sono messo a fare teatro, prima clandestinamente indossando delle maschere, nessuno sapeva che ero io. Mettetevi nei miei panni: provare a fare l’attore con due mostri sacri del genere in casa… me la facevo sotto, come si dice in linguaggio forbito.
Arrivato ai 40 anni ormai recitavo da qualche tempo in vari posti e per la prima volta ho debuttato in un teatro vero, con le poltrone rosse, il palcoscenico e mio padre ha pensato bene che doveva venire a incoraggiarmi. E lì mi ha impartito l’unica lezione di teatro che vi passo perché vi può essere utile. Mi disse: “Prima di uno spettacolo fatti una passeggiata. Le serate dove ho recitato meglio sono state quelle in cui non avevo molta voglia, in platea non c’era nessuno che volessi particolarmente impressionare ma siccome sono un professionista ho comunque cercato di dare il meglio e mi sono accorto che proprio in quelle occasioni ho recitato meglio che in altre serate dove magari mi ero applicato di più. E poi ricordati che quando sali sul palcoscenico quelli che hai davanti sono degli amici perché si sono messi il cappotto e sono usciti di casa per venire a vederti”. Fine. Un corso di teatro decisamente rapido.
Per carità, è importante conoscere la storia del teatro ecc. ed è anche importante sapere che c’è un muro e che non c’è nessuno al mondo che può insegnarvi a sfondarlo. O avete voglia di farlo, avete la determinazione e il divertimento per abbatterlo, oppure non ce la farete.
Non ho niente contro la scuola e l’insegnamento. Gli ultimi 37 anni li ho dedicati a fare una scuola, una libera Università. Visto che non ero nemmeno diplomato al liceo ho dovuto fare una scuola Libera per diventarne rettore e realizzare così il mio sogno. Quindi sono a favore dell’insegnamento, insegno da 37 anni. Bisognerebbe chiarire che l’insegnamento è fondamentale e utilissimo ma poi c’è una parte che devi fare tu. E quella non te la può insegnare nessuno. Puoi stare a vedere per tanto tempo come fanno quelli che ne sono capaci. Spero che voi andiate a teatro a vedere molti spettacoli perché quello è il modo per imparare. Se ne avete la possibilità andate a vedere le prove di uno spettacolo, si impara molto di più.
In alcune puntate della serie in onda su Rai5 che raccontano la storia dei miei genitori gli ultimi cinque minuti sono dedicati ai corsi di teatro di Dario e Franca, e lì vedete le correzioni. Ed è molto interessante vedere quando mio padre o mia madre dicono: “No, così non va bene…”. Si impara più dagli errori propri o degli altri che dalle cose giuste.
Ciò detto, mi rendo conto che sono stato molto facilitato dal fatto che la mia famiglia ha fatto il teatro più semplice che esista. Molti comici fanno le imitazioni, per esempio, e quello è molto difficile. Lo stile della Commedia dell’Arte, che mi padre definiva “epico”, è invece facilissimo perché tutti voi, o almeno gran parte, siete in grado di raccontare a qualcuno una storia, qualcosa che vi è successo, in maniera che si capisca e che sia interessante.
Quello che si fa in questo tipo di teatro è soltanto questo: raccontare una storia esattamente come la si racconterebbe a un amico con poche variazioni, perché ovviamente se si parla a una persona a un metro da noi si ha un certo tipo di approccio che cambia se si parla a cinquanta persone. Il meccanismo però è lo stesso.
Su YouTube potete trovare il nostro Alcatraz Channel: lì c’è una serie di video di persone a cui abbiamo chiesto di raccontare un episodio divertente della propria vita. Sono una quarantina di video realizzati dagli allievi di un corso di teatro.
E’ molto interessante vedere la diversità tra un racconto e l’altro. Del teatro “ufficiale” italiano mi dà molto fastidio vedere che recitano tutti alla stessa maniera. Se invece andiamo a vedere come la gente racconta nella vita reale dei fatti che ha vissuto, si scopre che lo sa fare in maniera più semplice, quando si racconta di qualcosa che ci è realmente successa ecco che la recitazione è più spontanea.
Mia madre viene da questa scuola e ha molto influenzato mio padre perché lei faceva parte di una famiglia di attori girovaghi della fine dell’800 e stavano sul palcoscenico come se stessero al caffè, raccontavano storie e se dovevano pensare a come recitare il discorso della madre al figlio che parte, lo recitavano immaginando che lì ci fosse il figlio che stava realmente partendo, era tutto improvvisato, non avevano testi scritti.
Quello che io ho fatto in teatro è stato raccontare semplicemente delle cose che mi erano realmente successe. Durante i corsi ad Alcatraz cercavo di raccontarle in modo divertente e quelle più divertenti le ho cucite insieme e così ho fatto il primo spettacolo e poi un secondo, un terzo, un quarto. Quello che rende semplice questo lavoro è che racconto la verità. E il pubblico sente che non sto recitando, sto raccontando cosa mi è successo, nessuna tecnica di recitazione.
Questa è stata una rottura enorme negli anni ‘50/’60.
Figuratevi che mia madre fece un film con Renato Rascel dal titolo “Rascel Fifì” – se lo andate a vedere troverete mio padre biondo che fa il gangster sciupafemmine, la cosa più improbabile che si possa immaginare, povera creatura -  e fu doppiata da un’altra attrice perché la produzione disse che non sapeva recitare perché l’impostazione ai tempi prevedeva che le attrici recitassero con il “birignao”. Cosa che nessuno nella vita normalmente usa se non quelle che lo fanno di mestiere e che anche quando vanno a casa usano il birignao per dire: “Il bambino ha fatto la popò…” (continua)