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Libri: Coca Cola L'inchiesta proibita

Carissimi,
Vi presentiamo un libro di una piccola casa editrice: la Lindau, che ha da poco pubblicato "Coca Cola L'inchiesta proibita", di William Raymond.
Come scritto in una recensione di Repubblica: "Efficace esempio di giornalismo di inchiesta, il libro racconta una storia fatta di intrighi, alleanze e tradimenti, narrata con la suspense degna di un giallo dei nostri tempi."
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Buona lettura!

Il libro
Da oltre un secolo disseta milioni di persone in tutto il mondo, ma è molto più che una bevanda: la Coca-Cola è un simbolo e una leggenda.
E' un simbolo dell'American way of life, della moderna società dei consumi, dell'espansionismo yankee. È una leggenda per la sua storia intrisa di segreti e di misteri, che nessuno fino a oggi si era sentito di sfidare.
Ma William Reymond non si è tirato indietro.
Attraverso un inedito lavoro di ricerca e una minuziosa ricostruzione - dalla creazione della "formula segreta" nel retrobottega di una farmacia di Atlanta, alle sfide con la Pepsi, l'eterna rivale, fino alla lotta per la sopravvivenza durante la seconda guerra mondiale e alle aggressive strategie di mercato dei decenni successivi -, Reymond riesce a fare luce su molti lati oscuri della storia della Coca-Cola, scoprendo vicende inquietanti, poco o nulla conosciute, e una volontà di affermazione che non si arresta di fronte a nessun ostacolo.
Sono molte le rivelazioni sconcertanti di questo dossier, frutto del miglior giornalismo investigativo, che non potrà lasciare indifferente neppure il consumatore più accanito o il più appassionato collezionista di "memorabilia".
Dopo la lettura di questo libro, non la penserete più nella stessa maniera.
William Reymond è un giornalista francese che vive da tempo negli Stati Uniti.
E' autore di diversi libri-inchiesta, tra i quali ricordiamo: Dominici non coupable, JFK autopsie d'un crime d'État e JFK le dérnier témoin.

Prologo
Atlanta, 16 febbraio 1940.

L'ironia della situazione non poteva sfuggirgli.
Non aveva già notato più volte che soltanto le decisioni difficili e le vittorie ottenute all'indomani di dure battaglie davano davvero senso al suo ruolo? Ma questa volta il gioco era diverso e la partita rischiosa. Robert W. Woodruff esitava. Certo, c'era il piano. Niente di spettacolare, solo qualche rigo scritto su un banale pezzo di carta. Un foglio bianco, in effetti, senza intestazione né firma. E l'insieme, dal punto di vista della Compagnia, sembrava tenere. O almeno, dava quest'impressione. In ogni caso, Woodruff era pronto a convincersene. Ma, c'erano alternative?
Già da un mese, i pensieri del proprietario della Coca-Cola Company erano interamente rivolti all'Europa. E stavolta non si trattava di espansione, ma di sopravvivenza. Il 26 gennaio, infatti, Woodruff aveva ricevuto due lettere da Burke Nicholson. Due plichi che cominciavano con la dicitura "Confidenziale". Nicholson era il presidente della Coca Cola Export Corporation, una componente della Compagnia, la cui sede era stata fissata nel Delaware, Stato dai numerosi vantaggi fiscali. Ora l'Export si incaricava di dare vita alla visione di Woodruff: creare un mondo dipinto di rosso, il colore storico del marchio. A trentatre anni, sognatore e forte della sua giovinezza, Robert Woodruff contava infatti di rivoluzionare la Compagnia prima, e poi l'intero mondo del business.
Fin dalla sua ascesa alla presidenza della Coca-Cola, nel 1923, il Capo non aveva mai smesso di martellare con questo leitmotiv: per avere successo, la bibita di spicco della casa si doveva trovare a portata di mano del consumatore nell'istante stesso in cui questi sentiva il desiderio di berne. In quest'ottica, il mercato interno americano costituiva una prima tappa giacché Woodruff era convinto che il futuro della "Coke" e la ricchezza dei suoi azionari passassero attraverso la conquista di nuovi mercati. Certo, prima di lui, la Coca-Cola aveva assaggiato le acque scure e agitate dell'esportazione, ma si era trattato di timide avanzate, frutto di scelte individuali e non coordinate sin da Atlanta. In quanto a Woodruff, lui aveva in mente piuttosto uno sforzo massiccio, ponderato e sistematico. Una mondializzazione del marchio ancor prima che il termine esistesse. Ma, leggendo le due lettere di Nicholson, il capo aveva capito che se quello che il responsabile dell'Export diceva era vero, lui poteva perdere tutto. Sicuramente, il suo posto al comando della Coca-Cola. La sua reputazione anche. Ma soprattutto, nella sua caduta, rischiava di portarsi dietro la Compagnia stessa.
*
Era già da qualche tempo che Nicholson temeva il peggio. Sin da Wilmington, stando a diretto contatto con gli imbottigliatori stranieri, aveva assistito in prima fila alle agitazioni in Europa. Aveva visto Hitler invadere la Polonia, Stalin bombardare la Finlandia, e la Francia e l'Inghilterra entrare in guerra. Non solo il conflitto rischiava di durare a lungo, ma sembrava anche potersi estendere al mondo intero. Ora, proprio quel mondo intero era il suo terreno, un posto tutto suo che immaginava abitato da missionari del marchio incaricati di portare la bibita santa alle popolazioni prive di evangelizzazione coca-coliana.
Poi, c'era stata la decisione britannica di mettere la Germania sotto embargo, l'armamento della flotta mercantile, le mine magnetiche e l'ordine di Hitler ai suoi sottomarini di affondare ogni nave inglese o che battesse bandiera neutrale. Nicholson non ignorava nulla, non più, dal siluramento delle navi norvegesi, svedesi, olandesi e danesi. Continuare il commercio in quelle condizioni si faceva sempre più pericoloso.
Infine, anche se per il momento l'opinione americana restava in maggioranza non interventista, lui aveva notato quanto la crociata di Charles Lindbergh danneggiasse la causa neutralista. A forza di dichiarazioni maldestre, mentre il mondo scopriva i primi risultati dell'orrore nazista in Polonia e in Cecosclovacchia, l'aviatore e i suoi seguaci passavano poco a poco dal ruolo di pacifisti pro-americani a quello di opportunisti troppo vicini al Führer.
D'altro canto, il 4 novembre, il presidente dell'Export aveva letto dell'emendamento alla legge di Neutralità del 1935, proposto dal presidente Roosvelt, che autorizzava ormai gli Stati Uniti a vendere armi "ai paesi che potevano pagare in contanti". Anche se la Germania nazista rientrava nel quadro della legge, era chiaro che il gesto di Roosvelt si rivolgeva unicamente alla Francia e all'Inghilterra.
All'inizio del mese di gennaio del 1940, come tutti i dirigenti di compagnie che lavoravano col Vecchio Continente, Nicholson aveva nuovamente constato il tono particolarmente aggressivo del messaggio per il nuovo anno pronunciato da Adolf Hitler. Un testo in cui si parlava di "nuovo ordine" e di "nemico capitalista. Tirava una brutta aria sul mondo e per la Coca-Cola sarebbe stato difficile evitare la tempesta.
Non gli restava che Keith.
Nicholson sapeva per certo che la Compagnia poteva contare sul capo della filiale tedesca e sui suoi contatti in seno all'apparato nazista per tentare di passare attraverso le maglie della rete.
Max Keith si era unito alla Coca-Cola GmbH nel 1933, poi aveva rapidi progressi in seno alla compagnia fino a raggiungerne la vetta. Nel 1936, i Giochi olimpici di Berlino avevano consacrato il suo potere: la Coca-Cola era ovunque. Woodruff, il capo, era persino andato in terra nazista dove era stato invitato a vari ricevimenti privati organizzati da dignitari del regime come Hermann Goering e Joseph Goebbels. Sicuramente Woodruff aveva intuito che la situazione tedesca rischiava di degenerare, di far vacillare il precario equilibrio dell'Europa e, dunque, di ostacolare l'espansione del marchio. Ma, fine conoscitore del mondo politico, non ignorava affatto che era tutta una questione di contatti, e che la Compagnia ne aveva di solidi. Dopotutto, non piaceva pure a Hitler una Coca bella fresca? Ahimè, l'euforia dell'agosto 1936 aveva presto ceduto il passo all'inquietudine quando, dopo meno di un mese, Goering aveva deciso di bandire le imprese straniere dall'impero in costruzione, dichiarando la necessità dell'autosufficienza per la Germania.
Woodruff era intervenuto personalmente per impedire l'esclusione della Coca-Cola. La minaccia era stata reale, ma a un periodo di dubbi, era seguito lo sviluppo della Compagnia. Ora che la situazione europea andava peggiorando, Nicholson aveva un'unica convinzione: solo Keith poteva sistemare le cose...

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